È facile attribuire il degrado del presente ai barbari. I barbari del nichilismo incolto e i cinici del nichilismo culturale, gli invasori e gli invasati del Nulla. Ma c'è pure una precisa responsabilità culturale, prima che pratica, dei loro antagonisti, quel variopinto arcipelago denominato controcultura dove si trovano - sbrigativamente accomunati come destre - pensieri e autori conservatori e liberali, tradizionalisti e protofascisti, moderati e radicali, cattolici e laici. Di solito l'autocritica si limita al piano pratico dei comportamenti e si riduce a due tre ricorrenti ammissioni: troppi solisti, incapaci di far gruppo, refrattari a un discorso comunitario. Oppure divisi tra superbi e opportunisti, gli uni che non vogliono sporcarsi col mondo e restano nella loro celibe purezza di incontaminati, coltivando una specie di verginità sdegnosa; e gli altri che lasciano in studio le loro idee e si adattano a giustificare le più grevi mode pop, con la scusa di mantenere il contatto con la realtà. Narcisisti ascetici e narcisisti edonisti. Autocritiche fondate, senza dubbio, ma carenti perché non affrontano il sospetto che vi sia già alle origini un errore culturale o almeno una cattiva interpretazione della realtà. Qual è allora il punto debole che inchioda alla marginalità il pensiero di «destra», nell'accezione onnicomprensiva che ne abbiamo dato? La percezione disarmante della decadenza, ossia la convinzione di trovarsi in un irreversibile degrado e dunque vivere la realtà di ripiego. Sembra una visione tipica dei reazionaria ma a ben vedere è il punto debole di ogni controcultura. Il meglio è passato, c'è sempre un'età dell'oro da rimpiangere rispetto a cui siamo caduti; di conseguenza o c'è il canto della nostalgia rivolto al passato o il canto del cigno per l'ultima, disperata impresa, o l'idea che si debba resistere, stoicamente o eroicamente, a un assedio ineluttabile; ma poi i difensori via via si spengono, i viveri scarseggiano, le mura crollano. O più frequentemente che bisogna adattarsi alla situazione. Ci sono fior di dottrine che giustificano questo involuzionismo dall'età dell'oro all'età oscura. Ma c'è soprattutto una proiezione biologica: la parabola della nostra vita dalla gioventù alla vecchiaia. La visione crepuscolare della vita, il senso nostalgico per ciò che è finito o sta per finire è una magnifica premessa per scrivere poesie, elegie e romanzi, per edificare una letteratura del tramonto di struggente bellezza. Ma la stessa visione applicata alla realtà, oltre che alla politica e alla società, spegne ogni energia vitale. A questa visione della decadenza inevitabile si oppongono due considerazioni decisive. La prima attinge proprio dall'immenso arsenale del passato: provate a leggere Platone e la grande tradizione letteraria o del pensiero ma anche i grandi oratori e i grandi leader del passato: trovate le stesse sconsolate considerazioni sul presente, è tutto un paragone tra la bellezza e la grandezza di un'età aurea e il degrado e l'infamia del proprio tempo. Il disagio per il proprio tempo riguarda ogni epoca e ogni spirito eccellente perché si sente stretto nelle miserie dell'oggi e paragona le vette del passato alla mediocrità del presente, dimenticando che pure il passato aveva le sue mediocrità e le sue infamie, pur diverse da quelle presenti. Che non si notano perché la memoria è selettiva e del passato restano le cose migliori, non la mediocrità. Se non vogliamo ricorrere ai secoli passati, basterebbe immergersi nella cultura degli ultimi cent'anni per accorgersi che è un continuo comparare la degenerazione dei figli rispetto alla generazione dei padri. In realtà si confondono i piani: la trascendenza con l'immanenza, il cielo con la terra, e si confonde l'origine col passato. Ogni epoca compie la sua parabola da un'ascesa al declino, ma poi si ricomincia. La parabola della nostra vita, dall'infanzia alla vecchiaia, non può essere il senso del mondo, ma va inserita nel ciclo delle generazioni, una che tramonta e un'altra che sorge. Il mondo non finisce con noi, così come non nacque con noi.
Qui ha sede l'errore culturale di quel pensiero, da cui discende il fatalismo della decadenza che lo dispone all'invettiva rancorosa, piangente o solo difensiva. Quel pensiero, benché combattivo, alla fine è subordinato al cliché progressista perché ne accetta l'ineluttabilità, anche se ne capovolge il giudizio. In realtà ogni epoca ha i suoi alti e i suoi bassi, non c'è conquista senza perdita su altri piani; la storia si dimena tra nascite e cadute e non va solo in una direzione, il proprio declino biologico s'inserisce in un più vasto quadro di albe e tramonti. Liberiamoci dall'ipocondria della decadenza che attanaglia il pensiero e ne spegne la possibilità fondatrice e fecondatrice. Ogni epoca ha le sue croci ma anche le sue delizie. Questa prospettiva non conduce ad aderire al presente ma a distinguere la critica necessaria al presente dalla sua negazione apocalittica come l'abisso finale. Si può nutrire un pensiero critico del presente e pure un pensiero tragico sulla condizione umana, lacerata tra l'imperfezione del reale e l'aspirazione all'assoluto, sospesa tra il cielo e la terra. Ma senza commettere l'errore di relegare il paradiso nel passato; errore speculare all'utopia, in rovina, di chi immagina paradisi futuri in terra. Crogiolandosi nella decadenza, quel pensiero si è fatto dolente, risentito e inoperoso come davanti a una clessidra in cui stanno cadendo gli ultimi granelli.
Per rendere incisivo quel pensiero nel presente bisogna rovesciare la clessidra, perché la vita è cosparsa di nascite e morti ed è scandita da clessidre che si vuotano e si riempiono. Non siamo alla fine del mondo ma alla fine di un ciclo, non sta finendo la storia ma una storia. E dopo ogni fine c'è un inizio. Rovesciare la clessidra.
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