Aida non piace e la Scala si trasforma in uno stadio

Aida di Giuseppe Verdi, Scala di Milano, 14 febbraio. Il primo atto scorre lisco. Solo qualche applauso di cortesia, e punto. Ma è la bonaccia prima della tempesta. Nel foyer si affilano le armi. I fondamentalisti dell'opera, tipi che vivono la lirica come se fosse questione di vita o di morte, fanno capannelli: bocciano Tizio, assolvono Caio, l'opera non è più quella d'una volta, l'orchestra neppure, figuriamoci le stagioni e via dicendo. Finisce l'intervallo, si abbassano le luci, torna il direttore: Omer Meir Wellber. Prima che sollevi la bacchetta, da un palco, uno spettatore inveisce sull'orchestra che farebbe di tutto per boicottare il direttore, evidentemente non gradito. Mica si limita a un accenno: si prende la scena e spiega che l'orchestra fa l'anarchica con quel direttore. Aida riparte. Altro intervallo, altri siparietti, culmine quando l'opera finisce: vengono buati i cantanti (dalla performance non memorabile, effettivamente) e soprattutto il direttore.

Ora i fuochi si accendono in altri punti del teatro diviso fra chi applaude lo spettacolo, chi inveisce sull'orchestra sull'onda del primo ardito, chi dice «vergognatevi» al pubblico che applaude, mentre gli spettatori stranieri si gustano questo spettacolo d'italianità da cartolina. Nel frattempo gli orchestrali, fatta l'ultima nota, se ne vanno infastiditi. Aida alla Scala sconta il passato. Un passato (e un raffronto) che pesa come un macigno.

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