Il direttore snobba i fischi e suona la serenata a Monti

Il direttore snobba i fischi e suona la serenata a Monti

Teatro alla Scala, 7 dicembre 2011. Scoccano le 21.40. L’opera inaugurale della stagione è andata in onda. Adesso giù il sipario fino a sabato. Respiro di sollievo, la produzione di adrenalina si quieta. Ora è tempo di libagioni. Anche perché Don Giovanni (appunto l’opera inaugurale) in casa Piermarini ottiene la promozione dell’applausometro e in tv (vedi la diretta di Rai5), quella del 2.02% di share. Quisquiglie rispetto al Fiorello show? Non facciamo paragoni indebiti. Nel foyer, già si è detto, si sono tessuti panegirici. Una tac accurata e disinteressata, svela tuttavia dati meno rassicuranti. Il fischiometro, senza andare in fibrillazione, s’è attivato per la regia (di Robert Carsen) e la direzione d'orchestra (di Daniel Barenboim). La critica non è un coro gregoriano, cioè a una voce, nel considerare questo Don Giovanni uno spettacolo da albo d’oro. Poi si sa, ben vengano i 1984 spettatori della Prima che mercoledì hanno portato nelle casse della Scala 2.390.000 euro (+ 8% rispetto all’ultimo Sant’Ambrogio). Ma il pubblico verace, l’umile amator della lirica che con i duemila euro di biglietto campa un mese, va alle repliche.
Finito lo spettacolo, gli ospiti più illustri erano alla cena di gala, con papille gustative sollecitate a dovere data la scena finale del Don Giovanni. I saloni di Palazzo Spinola, sede del più antico club meneghino, erano una folla di tavole rotonde per i 420 ospiti: artisti in testa, seduti assieme. Mancava la diva, però, Anna Netrebko che a caldo, nel retropalco, sgrana gli occhi quando le si chiedono notizie sul livello d’apprensione per la Prima che più Prima non ce n’è. «Io agitata? Per quale ragione? Anzi, mi sono divertita, sono happy, very happy. Bella produzione». Momento magico della serata? «Quando Don Giovanni canta l’aria Finch’han del vino». Al tavolo numero uno, siedono Mario Monti e Barenboim, con mogli incrociate. C’è ovviamente Stephane Lissner, il sovrintendente, e la nuova fidanzata che conversa con Umberto Veronesi.
Scorrono le portate, si chiacchiera amabilmente. Conosciamo la loquacità di Barenboim, dieci ore prima a colazione con Giorgio Napolitano. Fra i due c’è feeling, il direttore ci ricorda che il Presidente lo scorso maggio ha devoluto i 900mila dollari del premio di Tel Aviv Dan David alla Divan, l’orchestra israelo-palestinese di Barenboim. Che invitato a commentare i fischi, ora a bocce ferme, la butta sul culinario: «Si può esprimere la propria opinione, pur in mancanza di approfondite conoscenze. Però quando sei al ristorante, non è che vai in cucina e insulti il cuoco perché non hai gradito qualcosa. Magari riduci la mancia». Che dire a chi ha urlato «troppo lento»? «Non bisogna entrare in dialogo con questo genere di cose» taglia corto Barenboim, al suo primo Sant’Ambrogio da direttore musicale. L’anno prossimo tornerà alla carica con Lohengrin di Wagner, ci svela regia, di Claus Guth, e cast: Jonas Kaufmann, René Pape, Anja Harteros, Evelyn Herlitzius. Il premier quando vede l’attrezzo di lavoro, il taccuino, non risponde, ha già dato: nel tavolo accanto c’è Bruno Vespa, colui che lo portò in tv... Colma il vuoto-Monti, Barenboim «spesso i politici non amano la musica, però quando si è premier, si è simboli, quindi, passione o no, è opportuno che i politici vadano a teatro. In questo caso, avete un premier che è pure amante della musica, due in uno». Lissner dice di aver «parlato molto con il capo del Governo. Il ministro della Cultura, lo conoscevo già considerate le collaborazioni con l’Università Cattolica. Quanto al Ministro Corrado Passera, temo che lascerà il Cda della Scala, ma è ovvio che sarà vicino al nostro teatro». Non lontano dalla collocazione dei vertici massimi, c’è il presidente Rai Paolo Garimberti che ricorda il «nuovo ciclo di collaborazioni con la Scala, ci sono accordi per i diritti per tutti gli eventi Scala. Per noi è una bella vetrina, e poi in una fase di crisi come questa è anche giusto occuparsi del bello». Al tavolo degli artisti ecco Peter Mattei, Don Giovanni, che finalmente mangia per davvero. Da antidivo, non ha rilasciato neanche un monosillabo prima della prima. Perché? «Non servono le dichiarazioni prima dei fatti», risponde con pragmatismo scandinavo (è svedese). Nel suo spettacolo, Carsen fa sprofondare tutti negli inferi, mentre Don Giovanni è lì che li guarda fumandosi una sigaretta.

Concorda con la scelta? Neanche fosse cresciuto all’accademia militare di Stoccolma, Mattei risponde: «Applico quello che mi chiede di fare il regista. Non è che sto a discutere. Certo, se mi chiedesse di prendere a schiaffi gli spettatori, evito. Ma se la richiesta non è estrema, io faccio il mio mestiere: canto e mi muovo come vuole chi è pagato per farmi muovere».

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