«Non critico l’Italia: nel melodramma siamo ancora primi»

«Non critico l’Italia: nel melodramma siamo ancora primi»

Il 2012 è l’anno d’oro di Daniele Gatti, il direttore d’orchestra impegnato lungo l’asse Parigi (Orchestre National de France) e Zurigo (teatro dell’Opera). Cinquant’anni, di Milano, ha appena firmato un contratto con la Sony: è la sua prima esclusiva con una casa discografica. Al festival più chic d’Europa, quello di Salisburgo, l’hanno chiamato per eseguire un’opera da tempo assente: Bohème di Puccini. Ha un rapporto privilegiato con i Wiener Philharmoniker, assieme ai Berliner il top d’Europa: in autunno li porterà anche in Italia. Gatti era nella rosa dei direttori candidati alla successione di Riccardo Muti alla Scala, ma a spuntarla fu Daniel Barenboim. Nel frattempo aveva diretto concerti, l’inaugurazione di stagione del 2008 con Don Carlo, c’erano progetti, poi «il discorso sembrava interrotto e abbiamo voluto riprenderlo», ci dice il sovrintendente Stéphane Lissner. Così, si riparte con Traviata, per la prima della Scala del 2013, il sigillo dell’anno dedicato a Verdi a due secoli dalla nascita.
A Salisburgo fremono per la «Bohème»: non la si vede dagli anni Settanta. Come è possibile un’assenza così lunga?
«Forse ha sofferto dei pregiudizi sulla figura di Puccini. E comunque, la visione del sovrintendente è determinante in un festival. Un teatro invece dovrebbe assicurare un servizio alla comunità».
Un altro bel colpo: «Traviata» nell’anno verdiano, in un teatro verdiano.
«In realtà, l’idea del Verdi milanese va un po’ rivista. Esordisce a Milano, poi per quasi trent’anni lavora fuori. Rientra, ma s’arrabbia perché i suoi titoli vengono eseguiti male».
Fece arrabbiare lei il Don Carlos scaligero (anno 2008) che divise la critica e il pubblico? Che ricordo ha?
«Un ricordo bellissimo. Sono grato alla Scala per questa tappa ulteriore».
Un’idea della Traviata 2013?
«È presto per parlarne, anche perché non conosco nessuno del cast e tanto meno il regista. Valuteremo se seguire un approccio conservatore oppure cogliere i legami con la contemporaneità».
Fra due mesi scade il contratto con Zurigo. Poi?
«Rinnoverò quello di Parigi. Gli incarichi stabili sono complicati. Si è sotto perenne osservazione, devi essere sempre propositivo. Del resto, quando c’è un rilassamento, è la fine».
È doloroso lasciare un’orchestra che si è amata?
«Un’orchestra non va amata, va rispettata. Lo stesso vale per il direttore. Il rispetto rimane a lungo, mentre gli amori vanno e vengono, specie se sono colpi di fulmine. Se un’orchestra prende velocemente una cotta per un direttore, è molto probabile che con altrettanta velocità si disinnamori».
Da Parigi soffre per la situazione dei teatri italiani?
«Non mi unisco al coro di lamentele. Non aspettatevi questo da me. Preferisco cogliere il positivo».
Per esempio?
«Per l’estero continuiamo a rappresentare il riferimento per l’opera, così come Hollywood lo è per il cinema o Londra per il teatro. Dovremmo sfruttare di più l’industria del melodramma: non esiste un altro Paese al mondo che abbia sul proprio territorio teatri distanti massimo 100 chilometri. Poi, dei problemi che affliggono i teatri ne sento parlare dall’epoca del Conservatorio».
In aprile il balletto tratto da musiche di Vasco, poi il jazz classico di Bollani, lunedì un omaggio a Ray Charles con la Mahler e la WDR Big Band. Funziona tutto questo alla Scala?
«Amo il pop, e soprattutto il jazz. Però ci sono luoghi deputati per ogni cosa. Prendiamo il rock: richiede ampi spazi, una colorazione del suono diversa rispetto a quella di un teatro».
Figuriamoci la lirica negli stadi.
«Per carità. A San Siro si va per vedere le partite».
Solo ora ha accettato di firmare un’esclusiva discografica. Perché?
«Conta l’esecuzione dal vivo, l’incisione è un qualcosa in più. Dirigo da 32 anni, adesso sento di poter lasciare alcune cose».


Ed è partito da Debussy. Poi?
«Poi ci sarà la Sagra della Primavera di Strawinskij, un secolo fa fece scandalo ma ancora oggi ha pagine di una novità sconvolgente. Più in là, ancora Debussy, Ravel e magari Brahms con i Wiener».

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