Emissioni di metano: chi sono i maggiori responsabili?

Viaggio tra i settori industriali alla scoperta di chi (e come) sta provando a invertire la rotta

Emissioni di metano: chi sono i maggiori responsabili?
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La corsa al taglio delle emissioni di metano va a due velocità. Se è vero infatti che il settore energetico europeo a partire dagli anni Novanta a oggi ha ridotto di oltre due terzi i valori di metano rilasciati nell’aria, è anche vero che l’agricoltura contribuisce quasi al 10% delle emissioni globali di gas a effetto serra. Quindi a un esempio virtuoso si contrappone un circolo vizioso. Si tratta di uno dei falsi miti più diffusi: basti pensare che soltanto il 3% del metano emesso è da attribuire all’industria del gas, lo 0,4% del totale dei gas serra. La responsabilità, almeno in questo campo, è di zootecnia e allevamenti, la cui domanda mondiale è in crescita a causa dell’aumento della popolazione.

Uno studio condotto nel 2022 dal National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) in collaborazione con la Nasa ha dimostrato come l'85% dell’incremento nelle emissioni di metano registrato dal 2006 al 2016 è stato provocato da bestiame, agricoltura e rifiuti agricoli. A finire nel mirino sono i processi digestivi degli animali che, attraverso un processo chiamato fermentazione enterica, producono enormi quantità di questo gas. Rispetto agli altri elementi inquinanti come l’anidride carbonica il metano rimane dieci anni nell’atmosfera, ma ha un potenziale inquinante 80 volte più pericoloso e secondo le stime degli scienziati la sua concentrazione nell’aria è più che raddoppiata negli ultimi 200 anni. Ma soprattutto è una delle cause del riscaldamento globale. Per queste ragioni (ma non solo), limitarne l’impatto sul pianeta è diventata una missione che governi, organizzazioni internazionali e aziende vogliono portare a termine entro i prossimi decenni.

Le imprese e gli operatori del ramo energetico si muovono in linea con gli obiettivi green delle Nazioni Unite, come l’Oil & Gas Methane Partnership - Ogmp 2.0 lanciata nel 2020 e a cui aderisce la Commissione europea. I membri dell’Ogmp rappresentano il 38% dei produttori di c<CW-3>ombustibili fossili, il 70% dei flussi di gas naturale liquefatto, oltre il 20% dei gasdotti e il 10% della capacità di stoccaggio a livello globale.

Un dream team composto da 115 società provenienti da tutto il globo, tra cui i colossi Bp e Shell, ma di cui fanno parte anche le italiane Eni, Enel, Italgas e Snam. Quest’ultima, attiva da oltre 30 anni nella lotta contro i cambiamenti climatici, ha in agenda il conseguimento della neutralità carbonica entro il 2040 e può annoverare il target «Gold Standard» conquistato per tre anni di fila dal 2021. Il «Gold Standard» è il riconoscimento che il protocollo Onu assegna alle aziende in base al raggiungimento dei target programmati. L’Oil & Gas Methane Partnership raccomanda una riduzione delle emissioni di metano del 45% entro il 2025. Un impegno che Snam sta rispettando, avendo già dimezzato l<CW-2>e emissioni negli ultimi nove anni e che va ben oltre le aspettative della comunità internazionale. Non solo, va ricordato che le emissioni di metano della rete di trasporto sono pari solamente allo 0,022% del gas immesso in rete.

A livello politico la prima svolta si è concretizzata nel 2021, quando alla Cop 26 di a Glasgow è stato sottoscritto il Global Methane Pledge (Gmp). L’accordo, presentato da Usa e Ue, oggi conta 155 firmatari e si sta trasformando in un’alleanza strutturale. La prospettiva del Gmp sembra meno ambiziosa delle altre iniziative avviate col coinvolgimento degli enti privati, ma lo è sia perché ottenere un ampio consenso tra gli Stati non è un compito semplicissimo, sia perché la finestra di intervento è più breve.

Il patto prevede la diminuzione delle emissioni di metano del 30% entro il 2030 rispetto al 2020 per garantire la soglia di 1,5 gradi dell’aumento annuale della temperatura fissati dagli accordi di Parigi. Promettente ma forse ancora insufficiente.

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