Pochi registi italiani hanno avuto un'attività così rarefatta, eppure così significativa quanto a risultati, come Valerio Zurlini, e nessuno come lui ha posseduto quel modo d'essere e di pensare che rimanda all'umanesimo, nel senso più puro del termine, colto senza essere intellettuale, sensibile verso i più deboli senza per questo farne un'arma sociale e politica. Alcuni titoli, del resto, bastano a raccontarne la sapienza cinematografica: Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961), Cronaca familiare (1962), La prima notte di quiete (1972), Il deserto dei Tartari (1976)... Era nato nel 1926 e aveva fatto a tempo a fare la guerra arruolandosi, minorenne, nel Corpo Italiano di Liberazione. Morì che non aveva nemmeno sessant'anni. Un anno prima della sua scomparsa aveva scritto per un celebre libraio antiquario di Reggio Emilia che si chiamava Prandi un libro dal titolo Gli anni delle immagini perdute, di cui riuscì a vedere la veste grafica e a seguire l'impaginazione e che legittimamente si può considerare il suo testamento. Il titolo riprendeva infatti i tanti progetti cinematografici mai portati a termine, ma non per sua colpa: «Un'opera incompiuta è una tappa di vita non percorsa, un traguardo non raggiunto, una somma di anni inutilmente perduti, una cicatrice in più, uno sterile anticipo di morte». Adesso Mattioli 1885 ripubblica quel libro cambiandogli di nome, Pagine di un diario veneziano (pagg. 276, euro 16, prefazione di Filippo Tuena), mantenendo l'introduzione allora fatta da Vasco Pratolini, scrittore cinematograficamente caro a Zurlini, ma espungendo le tre sceneggiature che lo completavano: La zattera della Medusa, Verso Damasco, Sole nero. Nello spiegarne le ragioni, il curatore osserva che «un film che non è realizzato non può essere sostituito con la parola scritta (...), è un film perduto per sempre, dolorosamente», ma questa idea di sostituirsi all'autore e decidere in sua vece e contro i suoi stessi intenti che cosa si deve pubblicare e che cosa no ci sembra più pretestuosa/presuntuosa che corretta. Il libro si apre con un esergo tratto dal Thomas Mann di Morte a Venezia: «Mantenere l'equilibrio di fronte alle fatalità, sopportare con grazia le condizioni avverse è più di una semplice costanza: è un atto di aggressione, un vero trionfo». Zurlini visse sulla sua pelle quell'«equilibrio» e quella «grazia» di fronte a una «fatalità» che si incarnava nelle paure dei produttori, nell'ignavia e nei ripensamenti dei finanziatori, negli odi meschini dei colleghi e nel chiacchiericcio pettegolo dell'ambiente cinematografico e della stampa più becera che criticamente avvertita. «Mi dolgo che la stanchezza e il senso dell'inutile mi spengano oggi l'odio verso coloro che li hanno impediti» confessa nelle ultime pagine. «Soffro per il furore di una rivolta che è stato attutito e spento dai lunghi anni di attese e disperazione». Alla fine gli rimase soltanto la speranza, anche se sapeva perfettamente che «la speranza non ha mai cambiato il tempo dell'indomani». Pagine di un diario veneziano non è però soltanto il lamento funebre per un cinema che sarebbe potuto essere e non è stato, nonché il ritratto di un apprendistato irrequieto, difficile quanto fiducioso nei propri mezzi; è anche e forse soprattutto lo splendido spaccato di una certa italianità all'indomani della Seconda guerra mondiale, «di migliaia di giovani, rimpatriati fortunosamente dalle prigioni in terre lontane o dai vari fronti di battaglia, illusi, traditi, comunque innocenti quale che fosse la fazione nella quale avevano scelto di militare; gente nata alla pace e forzata alla guerra, pronta al perdono e condannata alla vendetta, aliena dal rancore e sobillata dall'odio. Vera e oggi falsa, dolcissima e amara, facile alle lacrime e alla rassegnazione, delusa nella sua attesa d'amore. Ma la mia gente, sempre e comunque, la mia gente». È questa sensibilità a tenerlo al riparo dalle facili quanto fallaci lenti dell'ideologia politica applicata ai fatti e alle scelte da compiersi nella vita. Come già accennato all'inizio, Zurlini fu, ancora minorenne, volontario nel Corpo Italiano di Liberazione, ma la sua adolescenza di collegiale in un istituto di Gesuiti e in una città come Roma (dove le inquietudini del movimento operaio e la fronda culturale clandestina erano una pallida eco rispetto al Nord Italia), era stata resa più acuta dall'aver seguito, ancora quindicenne, il padre in varie missioni diplomatico-finanziarie fra Budapest, Sofia, Bucarest. Nell'Athénée Plaza di quest'ultima, ricorda, «si incontrava gente di ogni risma: ufficiali reduci dal fronte ucraino con gli occhi ancora sconvolti da immagini di carneficine e di sterminati campi di grano in fiamme, inviati speciali testimoni dei primi massacri, avventurieri, mestatori, affaristi, spie, aristocratiche balcaniche dai nomi impronunciabili e dalle età indefinibili, come nei libri di Paul Morand o nei romanzi della Princesse Bibesco, attricette italiane prestate al cinema rumeno per qualche film di propaganda, diplomatici, prostitute di alto bordo, uomini e donne disponibili a molti usi». Agli occhi del ragazzo Zurlini, quel mondo sarebbe potuto apparire misterioso ed esaltante, «se una tristezza cupa e irrimediabile non ne avesse già avvelenato e spento il fascino e l'esotismo». Fra i saloni vagamente liberty di quell'hôtel e i vari locali pittoreschi e rumorosi in cui le orchestre tzigane dettavano il ritmo delle danze, «era scolpita sui volti di tutti una malinconia tetra e invincibile». Silenzioso e attento, il giovane Zurlini ascoltava «i discorsi dei grandi, che erano Malaparte, Max David, Alfio Russo, l'allora colonnello Pippo Bodini che aveva guidato i volontari italiani nei disastri spagnoli, il ministro plenipotenziario Bova Scoppa»... Eppure, ricorda, sarà proprio lui, prendendo una sera la parola in una conversazione fra adulti, a prevedere «con pena e allucinante precisione quanto sarebbe accaduto di lì a poco più di un anno: la resa dell'Italia, il revirement des alliances, l'invasione tedesca del nostro Paese e lo scempio della guerra civile». Dopo l'Otto settembre del 1943, quando quelle previsioni sono divenute realtà e ormai diciassettenne Valerio Zurlini ha preso la decisione di attraversare le linee del fronte e raggiungere chi si batteva contro i tedeschi, al padre che non ha obiettato a quella scelta, l'ha aiutato a falsificare sul passaporto la data di nascita e solo al momento di salutarsi sul portone di casa gliene chiede il perché, il figlio risponde in modo esemplare: «Gli risposi che lo facevo per pagare conti non miei. Mi replicò che i suoi debiti li aveva pagati sul Carso, ed era vero ma non bastava». Da quanto sopra si capisce il resto, ovvero l'impossibilità «di considerare l'odio un sentimento degno di essere vissuto e la capacità di perdono oltre l'assurdità della vendetta». Il rifiuto della politica nasce in Zurlini dall'avere constato «le cruente implicazioni fratricide lungo l'avanzata verso il Nord: avevo incontrato i volontari della X Mas e i partigiani di Moscatelli, i carnefici delle Brigate nere e gli esecutori del Triangolo emiliano della morte». Si capisce anche, intellettualmente parlando, il rifiuto «di troppe idee nuove che si rivelarono vecchie, molti libri che in ritardo scoprimmo brutti e inutili come ad esempio quelli di Sartre e di Camus. In quei giorni di rinnovata passione ideologica e politica l'intolleranza regnò sovrana. Il marxismo fu amorosamente aggredito da una giovanissima generazione di figli di ricchi in temporanea rivolta contro il mondo dei padri. Scendevano dalle strade esclusive dei Monti Parioli pasionarie poco più che ventenni, belle e fanatiche, sprezzanti e un po' cretine, che si improvvisarono vestali della più intransigente ortodossia staliniana. Chiunque osasse rivendicare la minima ragione alla logica della libertà - o anche semplicemente al gusto - era sprezzantemente bollato con l'appellativo di fascista o sporco trotzkista. Una origine borghese o aristocratica era guardata con disgusto e pena, come se poi quei nuovi campioni del proletariato provenissero dalla vita aspra delle fabbriche o dal sudore dei campi». Non sorprende che uno dei primi lavori teatrali di Zurlini ancora studente universitario sarà la realizzazione di Le maître de Santiago, di Henry de Monterlhant, «testo mai più riproposto in un teatro italiano», così come, nella maturità, quell'omaggio a un Ezra Pound chiuso «nel suo mondo di fierezza umiliata, ma anche di bellezza e di perfezione», che apre le pagine di questo suo libro. È sempre andato controcorrente, Zurlini, infischiandosene delle mode e dei pregiudizi, dei diktat e delle censure ideologiche preventive.
Appassionato di pittura, Pagine di un diario veneziano ci lascia altresì gli splendidi ritratti di Giorgio Morandi e di Renato Guttuso e una visita al Duomo di Parma per vedere gli affreschi allora restaurati del Correggio che è una vera e propria meditazione sull'arte. Zurlini, l'ultimo umanista.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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