"E allora oggi è sabato 18 marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell'aeroporto di Fort Lauderdale, e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera al momento in cui salirò sull'aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di ammazzare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato". Bisogna immaginarlo David Foster Wallace di ritorno dalla crociera "Sette notti ai caraibi". Bisogna immaginarlo coi suoi demoni addosso e il carico di una settimana passata in mezzo a un'orgia di delirio consumistico, sfrenato divertimento di massa e intrattenimento demenziale.
"Ho visto spiagge di zucchero e un'acqua di un blu limpidissimo. Ho visto un completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l'olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente...". Per una settimana, nel 1995, DFW si è recluso, "volontariamente e dietro compenso", a bordo della Zenith, un mostro da 47.255 tonnellate di proprietà della Celebrity Crociere, una delle oltre venti compagnie che al tempo operavano tra la Florida e i Caraibi. Molto probabilmente non si sarebbe mai sognato di farlo volontariamente. Eppure in quegli anni stava già lavorando a Infinite Jest, vero caleidoscopio dell'alienazione americana per l'entertainment. A pagargli l'ingaggio per salire sulla Zenith fu la rivista Harper's Magazine. Gli dissero di andare e raccontare tutto senza filtri. E così fece. Due anni dopo uscì il saggio Una cosa divertente che non farò mai più.
Quando venerdì sera sono finalmente rientrato a casa dopo aver trascorso una giornata a Gardaland mi sono stravaccato sul divano, ho chiuso gli occhi e ho provato a spegnere il cervello. I pensieri, però, continuavano a ronzare, creando un frastuono di sottofondo. Frastuono che, come in una compulsante rassegna di vecchie diapositive dai colori striati, si arricchiva dei flash di una giornata devastante, iniziata con due ore e mezza di coda che si snodava tra il casello autostradale di Peschiera del Garda e il parcheggio del parco di divertimento. La manciata di chilometri disseminati tra rotatorie, strade secondarie di campagna e incroci di paese si erano trasformati in un fiume di lamiera immobile e stagnante. Il sole, che pulsava contro i cofani, bruciava all'interno dell'abitacolo. In lontananza, i clacson riecheggiavano stanchi per scandire i minuti che scorrevano nell'immobilità di una situazione surreale. In quel momento nessuno di noi poteva immaginarselo ma quelle due ore e mezza sarebbero state solo l'antipasto di una giornata passata eternamente in coda. Coda per entrare nel parcheggio a pagamento (i più volenterosi abbandonano l'auto in mezzo alla campagna e se la fanno a piedi sotto il sole). Coda per usare la toilette prima di varcare l'ingresso del parco (i display all'ingresso segnalano prontamente i "posti liberi"). Coda per entrare a Gardaland (nessuno ha ancora pensato di automatizzare i tornelli come in metropolitana). E quando, dopo cinque ore di estenuante attesa, sei finalmente dentro, tiri un sospiro di sollievo e pensi "È fatta!". E, invece, l'immagine di quella famiglia che, in coda con te, si affannava, prima di varcare l'ingresso, a farsi i panini in piedi e a trangugiarli avrebbe dovuto farti sorgere qualche dubbio. E invece no. Nessuno di noi aveva capito che quel gesto calcolato, probabilmente dettato dall'esperienza, non era mosso da ragioni economiche ma da un disperato tentativo di guadagnare tempo.
È quando sei dentro, travolto da un via vai interminabile di bambini, ragazzi, famiglie, amici e dipendenti del parco che capisci il tranello. Eppure, all'ingresso, lo avevano messo in chiaro sin da subito. Ovunque era un continuo pubblicizzare offerte per saltare la coda. Opzione "Sixteen infinity", opzione "Unlimited five", opzione "Fabulous fourteen", opzione "The best five". Ovviamente più paghi, prima arrivi. Il ché non è così facile da spiegare a un bambino in coda che si vede passare davanti altre persone. Come non è facile districarsi nel forsennato gioco di incastri per sopravvivere alla logica del salta-coda. Perché ogni codice va inserito in un'app. E l'app ti avvisa quando è il tuo turno. Nel frattempo, se sei bravo a calcolare gli orari e incastrare la giornata con la mappa del parco in mano, puoi fare più code (virtuali) contemporaneamente. Viene così a sgretolarsi il concetto di tempo. Che, Albert Einstein, già ci aveva avvertito non esistere. È tutto soggettivo: per alcuni è infinitamente lungo, per altri è una velocissima montagna russa.
Lo ammetto: venerdì scorso ho toppato sin dall'inizio. Da sempre sono contrario al salta-coda. È una questione di principio: non mi è mai sembrato istruttivo nei confronti delle mie figlie. La coda si fa, non si salta. L'ho sempre pensato. Me lo hanno insegnato quando ero piccolo e me lo trascino ancora oggi. E così sono partito con le migliori intenzioni. Coda per salire sulle mongolfiere di Peppa Pig. Coda per i Corsari. Coda per il Colorado Boat. Tutto molto bello. Poi qualcosa si è incrinato. Alle tre e mezza inoltrate ci spostiamo verso Kung Fu Panda Master. L'idea è anche di mangiare qualcosa. Purtroppo nei ristoranti più vicini non è rimasto più nemmeno un hot dog. E così ci accontentiamo di quattro porzioni di patatine fritte. Buonissime, va detto. Ma un po' pochine. Mentre mia moglie si mette in coda per salire a bordo del panda che fa arti marziali, affronto l'obiettivo della giornata: Jumanji. Un'impresa disperata, lo capisco sin dall'inizio. In coda si vocifera: "Ci sono due ore di attesa...". A malincuore, e con la coda tra le gambe, mi spingo verso l'ombrellone che smercia i salta-coda. Ce n'è uno davanti ad ogni attrazione. Il pass varia dai 5 agli 8 euro a testa. Quello di Jumanji costa 8, ovviamente. Totale per una famiglia di quattro persone: 32 euro. Per arrivare a comprare il salta coda mi sparo una coda di tre quarti d'ora sotto la pioggia. Il ché mi sembra un controsenso. Ma lo accetto perché, dopotutto, è l'ultima fatica della giornata. Dopo tre quarti d'ora, riesco finalmente a comprare il pass. Inserisco il codice nell'app Qoda che mi informa: "Il tuo turno è tra 57 minuti". Nel frattempo si sono fatte le cinque e mezza passate e mi accorgo che non c'è il tempo materiale. Ma ecco il coup de théâtre: a dispetto di quanto segnalato sul sito, il parco non chiude alle 18 ma alle 19. Bingo!
Ricontrollo l'app dopo mezz'ora e, proprio perché il tempo non esiste, l'attesa per l'ingresso a Jumanji è magicamente scesa ad appena tre minuti. Avverto mia moglie che si precipita scapicollandosi da Kung Fu Panda Master. "Eravamo a tanto così dal nostro turno...", mi dice. "Ma qui abbiamo pagato il salta coda", replico io con l'amaro in bocca. Mi accorgo di quanto sia tutto surreale. Quando sul cellulare spunta il QR Code, mi faccio largo tra le persone accalcate davanti alla mastodontica attrazione. Passiamo davanti a tutti quanti: a quelli che da due ore si bagnano in attesa del proprio turno e pure a quelli che si sono fatti il salta-coda ma che non hanno ancora il magico QR Code. "Entriamo, è fatta!", penso per la seconda volta nella giornata. E invece uno degli addetti punta il dito contro mia figlia, la più piccola, e dice: "Lei no!". Le mancano cinque centimetri di altezza. Il regolamento non lo permette. "Lei resta fuori". La bimba scoppia a piangere. Mi immolo. "Esco io", dico a mia moglie. Lei annuisce. Pure la primogenita attacca a piangere: avrebbe voluto fare la giostra tutti insieme. Mi fiondo all'info-point per avere i soldi indietro. Quando ho acquistato il salta-coda, nessuno mi ha informato del limite di altezza.
Sono inflessibili: "Niente rimborsi, il regolamento non lo permette". Ne esco sconfitto, non solo da Jumanji. Ho la netta sensazione di aver perso una parte di me, il ricordo bellissimo di una cosa che ho sempre ritenuto divertente ma che probabilmente non rifarò più.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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