Se la neuroscienza arrogante vuole imporre la «morale unica»

Se la neuroscienza arrogante vuole imporre la «morale unica»

La storia della scienza insegna che nessuno sviluppo importante è nato enunciando un programma di ricerca e poi sviluppandolo pian pianino. Può esservi stato certamente un lungo periodo di incubazione, ma i primi passi sono da gigante e il perfezionamento viene soltanto dopo. Se una teoria viene annunciata programmaticamente e, nei fatti, non arriva, si può star certi che è fallita in partenza. Chi predica per anni la ricetta del budino e non lo confeziona mai, vende fumo.
Alla categoria dei treni bloccati su un binario morto appartiene il progetto che motiva il libro di Sam Harris, Il paesaggio morale (Einaudi, pagg. 355, euro 19,50). Il sottotitolo, «Come la scienza determina i valori umani», lascia credere che il programma sia stato realizzato. Ma nelle pagine del libro non v’è traccia di quel «come».
L'obbiettivo di Harris - noto per un’ampia pubblicistica antireligiosa - è radicale e ambizioso. Egli considera pericoloso il punto di vista accettato da parte del mondo scientifico, anche dagli atei, e cioè che la scienza e la morale vadano tenute distinte. Egli attacca la più influente pubblicazione scientifica del mondo, la rivista Nature, per aver accettato «la sfortunata idea di Stephen J. Gould della “non sovrapposizione dei magisteri” (per cui scienza e religione, se correttamente interpretate, non possono essere in conflitto perché rappresentano campi distinti di conoscenza)». Quindi, il nemico principale di Harris non è tanto il mondo religioso o chi crede nell’autonomia della sfera morale, quanto il liberalismo laico tollerante, il «dubbio liberale» (come lo chiama) e il relativismo.
Chi conosce i discorsi di papa Benedetto XVI contro il relativismo salterà sulla sedia: per Harris, il relativismo è il miglior alleato del «dogmatismo conservatore». Per opporsi davvero ai credenti e ai «moralisti» occorre affermare un sistema di certezze altrettanto granitico - quello della scienza - e ricavare la morale dalla scienza. A chi l’accusa di dogmatismo scientista, Harris risponde con una scrollata di spalle: la scienza è basata sulla ragione e quindi non è dogmatica per definizione. Ma la sua visione della scienza, come una macchina per produrre certezze, è parodistica. Egli ignora che la storia della scienza si è sviluppata per programmi contrastanti, sotto l’influsso delle più svariate metafisiche e filosofie; e crede in qualcosa da cui - in tempi di moda della «complessità» - si terrebbe alla larga anche uno scientista avvertito, e cioè che i concetti scientifici, anzi tutti i concetti, sono «chiari» e «semplici».
Questa visione produce risultati di inimmaginabile grossolanità. Perché la morale non dovrebbe essere ricavata dalla scienza? - si chiede Harris. Il cancro è sempre cancro anche in Nuova Guinea, la schizofrenia è tale dappertutto (già qui non ci siamo), e anche il significato della compassione e del benessere è lo stesso ovunque... Una sfida plateale non alla ragione (sarebbe troppo dire) ma al buon senso. Che cos’è il «bene» per Harris? È ciò che porta al «benessere». E il benessere equivale alla salute, che è: non avere malattie riconoscibili, poter svolgere esercizio fisico e vivere fino a ottant’anni in modo accettabile.
Un simile bagaglio di idee da Bar Sport viene dispiegato nel corso di tante pagine volte a ripetere ossessivamente che lo studio del cervello, le neuroscienze, «permetteranno» di definire i principi di una morale condivisa la quale, una volta stabilita, interromperà le discussioni, che Harris chiama «dibattiti accademici». Nell’attesa che si realizzi il matrimonio tra «mondo delle misure» e «mondo dei significati», si deve credere che esso si realizzerà, altrimenti si è bigotti, dogmatici e nemici della scienza.
Come dicevo all’inizio, questo vuoto assoluto di contenuti in cambio di oltre trecento pagine di pronunciamenti di principio garantisce che la montagna non partorirà neanche un topolino. Intanto produce fanatismo scientista, intolleranza e incultura, ben rappresentati dall’idea allucinante che un giorno i «dibattiti accademici» sulla morale cesseranno. È sufficiente scorrere la vasta bibliografia del libro per toccare con mano questa miscela di intolleranza e incultura: gli unici riferimenti sono a lavori di neuroscienze e a testi filosofici recenti di area anglosassone estranei a quella che l’autore chiama «filosofia accademica» (la filosofia propriamente detta). Una persona colta si vergognerebbe di parlare di morale senza misurarsi con l’opera di Paul Ricoeur o Emmanuel Lévinas. Ma Harris ignora o prende a calci mezzo mondo, inclusi i padri del liberalismo classico, da John Stuart Mill a Karl Popper, colpevoli di essere tolleranti e non naturalisti.


L’unico contributo di questo triste libro è di offrire argomenti ai maligni i quali dicono che senza l’apporto di migliaia di intellettuali e scienziati europei, generosamente offerto da Hitler, la cultura americana sarebbe rimasta agli aforismi di John Wayne. Più seriamente, esso misura il deperimento della cultura liberale negli Stati Uniti, se viene preso sul serio e premiato un autore la cui ideologia poteva trovare una sede appropriata nel palazzo della Lubianka.

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