C’è qualcosa di lui che ti si impiglia dappertutto. Quando veste i panni di Aragorn ne Il Signore degli Anelli, diretto da Peter Jackson, calpesta terre brulle all’inseguimento del Male. È spettinato, trasandato, sporco e idealista. Si guarda bene dal confessare il proprio altissimo lignaggio eppure glielo leggi addosso per tutta la trilogia: dentro agli stracci c’è un cavaliere,sotto la pelle graffiata c’è un romantico e c’è tepore dietro a quelle iridi color ghiaccio. Guarda e sposta vento, Viggo Mortensen.
Ti osserva e ti scuote. Ha spigoli che non respingono. Adatti ad aggrapparsi e ad affrancare. È un uomo mischiato con tante cose, Viggo. Come gli ricorda tutti i giorni quella cicatrice sul labbro: colpa di una rissa di gioventù e di un filo spinato. Degli anni randagi ma onesti di quando studiava scienze politiche e letteratura spagnola, di quando era diventato un figlio di genitori separati e provava a sistemarsi nella vita con gesti irrequieti e voglia di meraviglia. Un po’ americano, un po’ danese Viggo che parla sette lingue e suona la sua musica e scatta fotografie in bianco e nero per tenere fermo ciò che vede perché il cinema è solo un pezzo di tutto ciò che è lui. Un eroe a voce bassa, di potenza garbata. Che cura e lenisce e risolve le vite vere, quelle che non scrive Hollywood.
Ha quella faccia lì, Viggo, impastato di razze e scelte, di muscoli e carezze. Sullo schermo è stato tutto: Sigmund Freud, il padre della psicanalisi e poi un padre per davvero in The RoadLa Strada ( tratto dal romanzo di McCarthy) che cerca di trarsi in salvo da una terra che è un deserto grigio. Solido e pulito, Viggo, che ha gli spigoli giusti per appenderci aspettative e poi è anche morbido da cadergli addosso. Un biondo con lineamenti mori. Un freddo bollente. Anche, e soprattutto, quando si sfila i panni sporchi con cui ha inseguito il Male. Quando inizia Viggo, che resta nudo.
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