Un tumore o una patologia legata al seno, è sempre un evento molto traumatico nella vita della donna, che ora, al contrario del passato, non si trova più da sola ad affrontarlo. Se fino a poco tempo fa nel percorso di cura, a partire dalle indagini mediche fino al post operatorio, ci si doveva muovere in autonomia, ora in molti ospedali, eccellenze della nostra sanità, sono presenti le "Brest Unit", comparti formati da più specialisti, che prendono in carica le pazienti, accompagnandole per tutto il percorso di cura. Sul loro funzionamento abbiamo parlato con il Dott. Andrea Cordovana Direttore Breast Unit ASST Santi Paolo e Carlo - Milano.
Dottore, cosa si intende per "Brest Unit" e perché sono così importanti nel percorso di cura delle patologie legate al seno?
“Si tratta di unità operative multidisciplinari, all’interno delle quali più specialisti si occupano in maniera coordinata, di gestire tutte le problematiche delle patologie al seno e in particolare i tumori. In maniera ‘coordinata’ significa che c’è una sequenza di procedure e un coordinamento tra gli specialisti, con tutta una serie di adempimenti da assolvere, anche istituzionali, per garantire quello che, si è visto nel tempo, risulta essere il percorso più efficace per prevenire, curare e gestire le donne che vanno incontro a queste patologie”.
Che differenza c’è tra il modo tradizionale di affrontare una patologia al seno, rispetto ad una "Brest Unit"?
“Fino a qualche tempo fa, quando una donna scopriva un nodulo al seno, per iniziare il percorso di cura doveva procedere in maniera molto complicata. Tornare dal proprio medico, farsi prescrivere altri esami, fare gli ulteriori accertamenti in altre strutture e così via. Al contrario invece, nel momento in cui viene presa in carica da una Brest Unit, a prescindere che si scopra che abbia un nodulo al seno o meno, viene inserita in un percorso dove può fare gli accertamenti necessari, con tempistiche adeguate, senza dover fare ogni volta richieste e girare per le varie strutture. Allo stesso modo, se il risultato dell’analisi mostra qualche anomalia, viene presa in carico da un gruppo di specialisti che coprono ogni ambito e che, soprattutto, sono in continuo contatto e condividono tutti i passaggi di diagnosi e di terapia necessari.
Prima tra tutti il radiologo, che solitamente è quello che fa la diagnosi, il patologo che è quello che esegue l’esame istologico, e in seguito il chirurgo senologo e l’oncologo, che scelgono il trattamento più efficace in base alle caratteristiche della malattia riscontrata. Viene poi definita in maniera multidisciplinare la procedura che la donna dovrà seguire. Se ad esempio si tratta di quella chirurgica, viene programmato il percorso a partire dalla visita fino al ricovero. In sostanza la paziente non deve più preoccuparsi della parte organizzativa. Dietro le quinte poi, l’equipe medica che la segue, prende decisioni sempre condivise e discusse all’interno del team. Questo aspetto è molto importante perché la paziente non corre il rischio di ricevere proposte o opinioni diverse ad ogni visita, come purtroppo succede quando ogni specialista opera in autonomia. Per ogni singolo caso poi vengono valutati anche gli aspetti contestuali alla malattia, perché un tumore al seno in una persona di 80 anni, non avrà le stesse conseguenze pratiche di una donna giovane in età lavorativa.
Identificato il percorso più idoneo alla cura della malattia si cerca di quindi adattarlo alla cura della persona. Questo particolare modo di procedere viene definito con il termine di “tailored approach” che significa “approccio sartoriale”, costruito cioè su misura per la singola persona. Inoltre all’interno delle Breast Unit ci sono delle figure di riferimento chiamate 'Case Manager', che sono infermiere dedicate, che si occupano non soltanto dell’assistenza, ma della presa in carico delle pazienti. Una sorta di primo filtro organizzativo che è un punto di riferimento per qualsiasi necessità, dal dover rimandare l’esame, al rispondere alle paure del paziente. Tutto questo perché si è compreso che ci si deve preoccupare di curare la persona nella sua totalità, non solo la sua malattia”.
Sempre all'interno delle patologie oncologiche del seno, ci sono però anche differenze.
“Istituzionalmente abbiamo quattro filoni di percorso: quello delle donne sane, che rimangono tali e viene definito “il percorso preventivo”. Quello delle donne “ad alto rischio” per fattori genetici, costituzionali o familiari, quelle “malate”, che rientrano nella classifica più comune, e che dopo una diagnosi scoprono di avere la malattia e vengono avviate al percorso di cura, e in ultimo, purtroppo, le donne “metastatiche”, quelle cioè che hanno un tumore, in stadio avanzato con metastasi”.
Per questa ultima categoria, le donne “metastatiche”, rispetto al passato quanto si è allungata l’aspettativa di vita.
“La malattia metastatica purtoppo è una condizione seria in cui non abbiamo la possibilità di far guarire completamente le pazienti rappresentando in alcuni tumori l’ultimo stadio della malattia senza reali possibilità di cura. Nel tumore della mammella la malattia metastatica può invece essere curata e tenuta sotto controllo anche per anni. Negli ultimi 10 anni le possibilità di cura della donna in fase metastatica sono enormemente aumentate grazie all’avvento di nuovi farmaci che hanno permesso, in alcuni casi addirittura di triplicare l’aspettativa di vita aumentandola di 4 anche 5 anni rispetto a solo 10 anni fa.
Questo è molto importante perché significa che in quel lasso di tempo potranno essere sperimentate altre tecnologie, nuove metodologie o farmaci promettenti, che possono prolungare ulteriormente la sopravvivenza. Fondamentale poi non è solo la lunghezza, ma anche la qualità della vita che attende queste pazienti, che va sempre considerata. All’interno della nostra Brest Unit, ci sono tutta una serie di ambiti di supporto come la fisioterapia, il supporto psicologico, nutrizionale ed anche estetico, per gestire ad esempio tutta la fase della chemioterapia. È un punto importante questo, perché ci sono giovani donne che vanno incontro alla perdita di capelli, alle unghie che si rovinano, ai denti che ingialliscono e tutto questo viene inserito nel percorso allo stesso modo della cura".
Spesso oltre al tumore stesso, è la chemioterapia o la radioterapia, di cui ha accennato, a spaventare. Attualmente ci sono ora procedure meno invasive o nuove metodologie farmacologiche?
“Quando non si applica una chirurgia demolitiva, ovvero si toglie tutto il seno, ma una terapia conservativa, che ne lascia una parte, la radioterapia rimane una cura fondamentale, ed è un’integrazione all’operazione stessa. C’è però da specificare che le radioterapie di ultima generazione, sono diverse da quelle del passato. Molto più concentrate e calibrate e le dosi sono più basse e locali. Quello che può portare generalmente, è un po’ di spossatezza, stanchezza, ma lascia una traccia molto minore rispetto a quelle di prima, ed è meno evidente di quello che si possa pensare.
Invece la chemioterapia, con una diagnosi precoce e l’identificazione di tutta una serie di caratteristiche proprie del tumore sulle quali si va ad agire, viene fatta solo nel 20 per cento dei casi. Fondamentale rimane però il percorso preventivo, che permette di intervenire in fase precoce e di avere possibilità di guarigione che sfiorano il 90%. La nuova frontiera del percorso preventivo è l’identificazione di pazienti che hanno una predisposizione genetica allo sviluppo del tumore e su queste si arriva ad intervenire chirurgicamente prima che si ammalino, quando sono cioè ancora sane.
Di questo tipo di chirurgia preventiva, si è parlato molto quando l’attrice Angelina Jolie, ha deciso di farsi togliere entrambi i seni preventivamente, perché aveva una forte familiarità che l’avrebbe portata a sviluppare il tumore. Lei su questo intervento cosa ne pensa?
“È sicuramente uno dei campi che si sta più sviluppando. Attualmente il problema principale è identificare le donne realmente a rischio, ed avere quindi la possibilità di intervento, sia in maniera preventiva che diagnostica, anche se non è del tutto ben chiaro lo spettro delle azioni possibili, perché il campo delle mutazioni genetiche è ancora una parte un po’ grigia. Credo che nei prossimi venti anni cambieranno ulteriormente le cose, e sarà molto più semplice la diagnostica delle mutazioni genetiche del tumore e quindi l’intervento”.
Ci sono dei farmaci specifici che si stanno sperimentando che possano permettere una più lunga aspettativa di vita?
“In corso ce ne sono molti, dagli anticorpi monoclonali, agli anti-PARP 2, ai CD4-6 inibhitors ecc. Questi farmaci hanno dei nomi difficili ma hanno consentito progressi straordinari, hanno un’azione sempre più specifica, man mano che si conoscono le caratteristiche biologiche del tumore, e vanno a cercare un elemento specifico della cellula tumorale che viene riconosciuta, a differenza della chemioterapia che va un po’ a colpire a tappeto, uccidendo anche le cellule sane”. Sono farmaci riservati ad alcuni particolari tipi di tumore o a quelle donne che hanno una progressione di malattia nonostante le cure iniziali o che non rispondono alle cure più tradizionali. Rappresentano le “armi di riserva” quelle che chiamiamo seconda o terza linea terapeutica e permettono di curare una buona percentuale di quelle pazienti che fino a qualche anno fa non avevano speranza. Ecco questi farmaci regalano speranza di cura e anni di vita".
A pari passo della ricerca medica, sembra però che l’età delle donne che scoprono di avere un tumore al seno si sia abbassata. C’è una spiegazione per questo?
“Da una parte perché c’è una diagnostica sempre più efficace, e i tumori vengono scoperti prima, Si arriva ad identificarli quando sono di appena 2/3mm. Questo grazie agli ecografi avanzati di ultima generazione, alle mammografie digitali e molti altri strumenti. Statisticamente quindi si abbassa l’età. Si sta ancora cercando di capire in realtà quanto in questo abbassamento abbiano un ruolo la genetica, i fattori a rischio, l’inquinamento, l’alimentazione ecc. ma è comunque un dato di fatto che è in aumento la quota di donne giovani che sviluppano tumori al seno, e spesso sono proprio queste ad avere quelli più aggressivi”.
In base a questo, attualmente a quale età è opportuno fare la prima mammografia?
“Di base a quarant’anni per la prima mammografia, ovviamente come già spiegato dipende dalla familiarità etc…. Una visita senologica e una ecografia invece possono essere effettuate anche molto prima a partire dai 20-25 anni in caso di necessità".
Sempre più spesso le donne si rivolgono alla chirurgia estetica per il seno, questo potrebbe essere un fattore di rischio?
“Bisogna fare attenzione a non passare dall’ottimismo al terrorismo. Bisogna sgombrare questo campo dalla paura, perché non esiste nessuna correlazione tra chirurgia estetica e il rischio di tumore. Anzi esistono studi che dimostrano il contrario, perché se il chirurgo è un medico scrupoloso e prima di fare l’intervento esegue una diagnostica preventiva, si ha maggiore possibilità di scoprire casi di tumore a stadi primordiali.
Bisogna anche tenere presente che la stragrande maggioranza degli interventi di chirurgia oncologica siano conservativi o ricostruttivi, utilizzano le tecniche della chirurgia estetica che viene applicata a quella oncologica. Si parla di “chirurgia oncoplastica” e viene offerta, quando possibile, a qualsiasi paziente all’interno di una Breast Unit".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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