Francesco Alberoni è un autore che sa fare buona manutenzione delle sue teorie. Così, la sua teoria dei movimenti, definita in Statu nascenti (1968) e Movimento e istituzione (1977), e sistematizzata in Genesi (1989), viene ora riproposta in Il leader e le masse (Rizzoli, pagg. 164, euro 15), che la aggiorna sullo sfondo del confronto tra Occidente e Islam.
Alberoni, come è noto, pone i movimenti alla base di gran parte delle trasformazioni sociopolitiche della storia occidentale e non solo; e la sua immagine di movimento, di stato nascente, di governo delle «trasformazioni non solidaristiche» come lo sviluppo economico, linnovazione tecnologica o i fenomeni di costume, ha lambizione di essere impiegata come parametro esplicativo tanto per i grandi movimenti religiosi, dal primo cristianesimo alla Riforma protestante (fino al movimentismo islamico), quanto per i movimenti politici che, a partire da Alessandro Magno fino al nazionalismo, ai totalitarismi sovietico o nazionalsocialista, hanno mobilitato grandi passioni e prodotto grandi tragedie, distrutto e ricreato solidarietà comunitarie, hanno forgiato insomma la fisionomia della civilizzazione culturale occidentale.
Distruggendo vecchi ordini ed edificandone di nuovi, o provando a farlo prima di essere sconfitti: «I movimenti irrompono nella società inattesi, attaccano le istituzioni, i costumi esistenti, li sfidano, li denigrano con inaudita violenza. Poi li abbattono per sostituirli con nuovi miti, nuovi poteri, nuove istituzioni». Dentro questo schema i movimenti si manifestano in modo plurale, differenziandosi a seconda del posto più o meno principale occupato dal capo carismatico (il nazismo) o da leadership diffuse (il movimento studentesco), dal riferimento a un «tempo divino» da riscoprire o a un futuro da esigere qui e ora, dalla violenza (la Rivoluzione francese o la Jihad) o dalla tolleranza (la Rivoluzione inglese), dalla capacità del movimento di riassumere in sé lordine sociopolitico precedente (il cristianesimo) o dalla sua furiosa volontà di cancellarne ogni traccia (lo stalinismo), dal tradimento delle idealità originarie o dalla capacità di farle rivivere almeno in parte nelle istituzioni che i movimenti, se conquistano il potere, mettono in piedi.
Oggi, sostiene Alberoni, il globo si divide tra le incognite cinese e indiana, laggressività islamica e il pericoloso cedimento al «relativismo culturale» dellOccidente, dove però si sta profilando «una nuova fase di movimenti» (religiosi, politici, culturali?). Non definendoli, qualche domanda rimane appesa. Prima osservazione. Dice Alberoni relativamente a quelle che Pharr e Putnam hanno definito disaffected democracies: «La democrazia ha bisogno del movimento perché, altrimenti, decade a puro rituale, perché si spegne nel disinteresse, nellastensione, nellapatia. Ma il movimento ha bisogno delle regole democratiche per non diventare dittatura».
A rigor di logica, ciò implicherebbe un giudizio meno tranchant sul relativismo culturale e una riconsiderazione dei più recenti esperimenti di «esportazione della democrazia». Che, come dimostrano vicende recentissime dallAlgeria allIrak, portano più danni che benefici. È il «paradosso della democratizzazione» evocato da Victor Zaslavsky rispetto alla Russia: in mancanza di una forte società civile e di contrappesi di libertà al potere politico, la mera democrazia formale è sempre corrompibile da qualche germe autoritario.
Questo ci porta alla seconda osservazione.
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