Ha quasi cinquant’anni, ma li porta benissimo. Capitalismo e libertà di Milton Friedman torna in libreria in una nuova edizione (IBL Libri, pagg. 296, euro 24), a riprova del fatto che il volume è ormai un classico del liberalismo contemporaneo: vitale come quando apparve, nel 1962. E questo in primo luogo perché le sue tesi continuano a essere in qualche modo «controcorrente» in moltissimi Paesi, a partire dal nostro.
L’origine di questa opera è interessante, perché alcune sue parti erano state esposte e discusse fin dal 1956 all’interno dei seminari del «William Volker Fund» da cui emersero - oltre al libro di Friedman - anche La società libera di Friedrich von Hayek e La libertà e la legge di Bruno Leoni. In questo piccolo gruppo di capolavori, il lavoro di Friedman si caratterizza per essere un’opera di alta divulgazione dei maggiori argomenti liberali e, al tempo stesso, perché rappresenta un formidabile tentativo di sviluppare una riflessione teorica sulla società di mercato e sui suoi presupposti. L’economista non ci offre qui le sue ricerche più accademiche in ambito macroeconomico, ma suggerisce invece quelle riforme politiche - dall’istruzione alla sanità, dal fisco all’assistenza - che possono permettere a una società di crescere in libertà e prosperità.
L’impatto fu straordinario. Non soltanto perché in America il volume riuscì a vendere ben 400mila copie già nei primi vent’anni di vita, ma anche perché la chiarezza espositiva e il rigore della riflessione l’hanno presto trasformato in una «piccola Bibbia», in grado di offrire un’agenda per gli anni a venire a larga parte del mondo culturale e politico variamente liberale, conservatore e libertario: oltre Atlantico e non solo. Quando il crollo del muro di Berlino portò lo storico Mart Laar alla guida dell’Estonia e questi avviò riforme economiche orientate verso il mercato, molti si stupirono di tanto coraggio e si domandarono come fosse possibile che un’idea come quella della flat-tax, ad esempio, potesse essere nota a un intellettuale uscito dal mondo sovietico. La risposta fu semplice: «Ho letto Friedman».
L’economista americano, insignito del premio Nobel nel 1976, percepì chiaramente l’influenza a largo raggio esercitata dalle sue idee. E così, quando i semi piantati con Capitalismo e libertà iniziarono a produrre frutti significativi (negli anni del thatcherismo e del reaganismo), egli decise di prolungare quel primo volume scrivendo altre due testi di analogo tenore: Liberi di scegliere, del 1980, e La tirannia dello status quo, del 1984.
In Italia Capitalismo e libertà arrivò abbastanza presto grazie a Renato Mieli. Dopo aver lavorato a l’Unità ed essere stato uno stretto collaboratore di Palmiro Togliatti, Mieli aveva lasciato il Pci a causa dei fatti di Ungheria e negli anni Sessanta era divenuto l’animatore del Ceses, un istituto liberale che sviluppava ricerche sull’Europa centro-orientale. Oltre a ciò, egli curava presso Vallecchi una collana, intitolata «Cultura libera», che presentò ai lettori italiani fondamentali testi di Hayek, de Jouvenel e altri, tra cui appunto Friedman. In quegli anni il clima culturale era tale, però, che nel 1967 a nessuno parve opportuno usare la parola capitalismo nell’accezione elogiativa adottata dall’autore. Per questa ragione il libro apparve come Efficienza economica e libertà e solo nel 1987 - grazie a una riedizione curata da Antonio Martino e dal Crea presso l’editore Studio Tesi - riottenne il suo titolo più appropriato.
La versione che giunge ora sugli scaffali si avvale di una nuova traduzione di David Perazzoni ed è impreziosita da un’introduzione dello stesso Martino, che sottolinea il radicalismo di quella proposta culturale ed enfatizza l’utilità di quella lezione anche ai fini di comprendere l’ultima crisi finanziaria: assai più correlata a una politica monetaria espansiva e lassista - del tutto anti-friedmaniana - che non a quel libero mercato messo sul banco degli imputati da tanta pubblicistica.
Le tesi teoriche formulate dall’economista di Chicago sono oggi, ovviamente, al centro di aspre discussioni. Gli autori liberali della cosiddetta Scuola austriaca, ad esempio, hanno espresso critiche piuttosto nette alla sua metodologia positivista e alle sue idee in materia monetaria. Ancor più negativi verso Friedman, ovviamente, sono i post-keynesiani, che giudicano irragionevole ogni proposta di tenere sotto rigoroso controllo l’espansione monetaria: magari anche grazie a vincoli costituzionali.
Tornando oggi a sfogliare il volume scritto quasi mezzo secolo fa da Friedman salta però subito agli occhi come su molti temi il suo successo sia stato impressionante. Quelle pagine uscirono entro un mondo occidentale che era largamente dominato dalla psicanalisi, dal marxismo, dallo strutturalismo. Oggi quell’universo si è in larga misura inabissato, mentre le questioni su cui Friedman invitava a dibattere rimangono più vive che mai. In particolare, è evidente ai più che non vi può essere alcuna società libera se le fondamentali libertà economiche vengono negate, e che è sempre più cruciale affrancare l'educazione dai poteri pubblici e dai programmi ministeriali: come attestano pure le polemiche di queste settimane che scuotono il Regno Unito.
La persistente attualità di Capitalismo e libertà è dettata, in linea generale, dall’intrinseca vitalità degli ideali libertari propugnati dal libro, ma è pure rafforzata dal fatto che, almeno nel lungo periodo, il tempo si rivela galantuomo.
L’intero Occidente si trova infatti alle prese con la crisi strutturale di un welfare statale - dalle pensioni alla sanità, per citare due voci cruciali - da cui si potrà uscire soltanto grazie a quel drastico ridimensionamento del settore pubblico che Friedman suggeriva.Anche chi in passato non ha condiviso la passione friedmaniana per la libertà, ora è chiamato a fare i conti con la dura legge dei fatti. E a trarne tutte le conseguenze.
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