Nel seguente estratto da Il libro dell'acqua, edito in Italia nel 2004 dalla splendida casa editrice Alet - defunta per troppa qualità, com'è facile in Italia -, c'è quasi tutto di Eduard Limonov (1943-2020): «I francesi, i tedeschi, gli americani da tempo non hanno più nessuna energia. Ho avuto molte occasioni per convincermene. Non sentono più la vita. Il futuro appartiene ai talebani, ai turchi, basta guardare come se le danno, ai curdi, a tutta questa folla selvaggia di individui sospetti che gli europei disdegnano e non capiscono. L'Europa è già morta, stanca e profondamente cambiata, perciò tutte quelle splendide fichette di rue du Petit Musc è inutile che sbattano le ciglia. Ci vorrebbe un ceceno che gli s'infili nelle mutande per insegnar loro a rigar dritto. (...) I miei noiosi colleghi letterati, anche i migliori tra loro, non hanno capito e si ostinano a non capire quanto l'essermi lanciato nella guerra e nella politica abbia ampliato le mie possibilità. Il nuovo senso estetico era quello che nasceva sfrecciando per una città bruciata sopra la corazza di un carro armato circondato da giovani belve con fucili d'assalto».
C'è il giudizio sull'Occidente, da lui conosciuto sin dal suo barboneggiare per la New York degli anni Settanta ricalcando le orme di tanti emigré - con i Velvet Underground sullo sfondo al posto dei Balalaika Russe -, fino al suo errare da Parigi a tutte le capitali europee dagli anni Ottanta all'inizio del terzo millennio. C'è il suo orgoglio di essere sempre stato anche un uomo d'azione, dalla politica di strada e gli scontri di piazza nella Russia postsovietica, al suo comparire nei Balcani e nel Caucaso delle guerre negli anni Novanta, tanto ipocritamente sottovalutate o colpevolmente ignorate a Ovest. C'è poi il Limonov politico, l'enfant terrible, il Limonov scrittore, quasi sempre autobiografico o parabiografico. Tra le righe c'è il Limonov punk - troppo punk per un serioso Dugin, con cui infatti ruppe, e messo al bando oggi sia in Russia sia in Ucraina -, amico di Egor Letov, cofondatore del Partito Nazional-Bolscevico e anima del gruppo punk-folk Gradanskaja Oborona (Difesa civile), e della cantautrice e poetessa Janka Djagileva, ambedue morti prima dei quarant'anni - anno più, anno meno -, come logico dev'essere per artisti davvero al di fuori o contro.
Nel libro che avete in mano (Grande ospizio occidentale, Bietti, pagg. 240, euro 21; in libreria da domani, ndr) c'è forse il miglior Limonov metapolitico, profetico e anche divertito, ed è per questo che abbiamo tanto desiderato farlo uscire in italiano - tradotto dall'edizione francese di Bartillat del 2016 - con la stessa urgente passione che proviamo per due altri grandi irregolari: Louis-Ferdinand Céline e Dominique Venner.
Limonov è profetico quando identifica con precisione, negli anni ormai lontani a cavallo del crollo dell'Urss, il controllo sull'uomo del Potere, statale o esercitato da organizzazioni sovranazionali o private. Un controllo che passa dalla violenza brutale dello «stivale che calpesta un volto per sempre» di 1984 di Orwell - testo per Limonov non profetico, ma banalmente descrittivo dei metodi dei totalitarismi staliniani e fascisti, a parte la neolingua, prefiguratrice del politicamente corretto - alla violenza soft del controllo psicologico, dei sistemi di sorveglianza avanzati, della digitalizzazione liberticida dell'esistenza, del sostituire l'emozione e le pulsioni vitali dell'uomo con i succedanei dell'intrattenimento di massa. Potenzialità letali che sappiamo essere ben intuite dall'Huxley di Brave New World, assieme agli abissi della ricerca genetica senza limiti.
La metafora delle società occidentali - e sottolineiamo come per Limonov, da un certo punto di vista, fossero ormai occidentalizzate anche Russia e Cina, e scriveva nel 1988-'89! -, simili a strutture ospedaliere o ospizi, con i cittadini ridotti a pazienti passivamente confinati nelle loro corsie d'ospedale, accuditi da solerti infermieri e orgoglio dell'amministrazione, risuonerà attuale a chiunque dopo due anni di restrizioni pandemiche. Tuttavia, sarebbe superficiale limitarsi a questa interpretazione, per il semplicissimo motivo che una nutrita letteratura su questo tema non ha cessato, in questi ultimi decenni, di far scattare continui cicalini di allarme sulla strisciante violenza soft degli Stati e delle megacorporazioni e il suo sempre più totalizzante dominio sull'uomo. Da schiere di testi scientifici sul controllo sociale e sulla cultura della sorveglianza ai romanzi di William S. Burroughs e J.G. Ballard, dall'intero genere cyberpunk agli scritti di Theodore Kaczynski e di libertari nordamericani come Claire Wolfe, sino alle città fantasma di Paul Virilio e Mike Davis.
Eppure, al momento non diciamo della verità, ma in un periodo di misure e restrizioni viste da molti - non intendiamo dai complottisti rettiliani, ma da persone di buon senso - come più autoritarie che sanitarie, la quasi totalità delle persone avvertite che ben conoscevano questi autori hanno dimostrato con il loro precipitare nello sgomento esterrefatto prima, e tutto sommato nell'accettazione poi, di aver letto quei libri come astratte opere di riferimento o pura letteratura d'evasione o erudizione, scegliendo più o meno inconsciamente, più o meno deliberatamente, di ignorare che sì, questi scrittori parlavano di noi, di noi nel nostro reale, presente e futuro.
Vedremo se queste pagine di Limonov avranno maggior fortuna.
Ovviamente, no.
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