Non stiamo assistendo al declino della globalizzazione né tantomeno alla sua fine. È in corso piuttosto una sorta di riallineamento. Il mondo, con i suoi equilibri che fino a qualche anno fa lo governavano, sta velocemente cambiando. E questo anche (e soprattutto) sul piano economico. "Ci troviamo di fronte alla richiesta di una globalizzazione diversa, rivolta in primis agli americani e agli occidentali e non alla richiesta di porre fine ad essa - spiega Marcello Foa - anche i Paesi che contestano la leadership americana non possono fare a meno del libero commercio a livello mondiale dal momento che le loro economie si basano soprattutto sull'esportazione". Insieme a Giulio Tremonti e al direttore di Limes Lucio Caracciolo, l'ex presidente della Rai, firma storica del nostro Giornale e autore del saggio Il sistema (in)visibile (Guerini editore), parteciperà all'incontro Chi decide le sorti del nostro futuro (clicca qui per partecipare) che si terrà venerdì prossimo (alle 18) al Palazzo delle Stelline a Milano. Sarà l'occasione per fare il punto appunto sulla globalizzazione. Ma non solo. Si parlerà anche della guerra in Ucraina e del ruolo che hanno i media nel raccontare i fatti.
Marcello, che destino ci attende?
"Stiamo assistendo ad una divaricazione tra i principi della globalizzazione e una concreta applicazione dei principi democratici. Questi ultimi presuppongono che il popolo possa esprimersi e governare, ovviamente attraverso i suoi rappresentanti. La globalizzazione ha generato un multilateralismo che si è trasformato in un reticolo di organizzazioni sovranazionali, leggi internazionali e condizionamenti vari. Per cui in molti ambiti – a mio giudizio troppi – la possibilità dei singoli Paesi di decidere in maniera autonoma si è ristretta moltissimo, provocando, tra i vari effetti, anche il malcontento di molti elettori."
Ovvero?
"Negli ultimi anni nei Paesi occidentali sono state elette maggioranze di diverso colore politico che hanno finito quasi tutte per deludere i propri elettori perché, quando i partiti vincitori entrano nel Palazzo, si accorgono di non disporre dei poteri necessari per realizzare quanto promesso. Il loro margine di manovra è sempre più ridotto: è un problema importante ma ignorato dai più. Andrebbe invece affrontato se vogliamo conciliare sviluppo economico e il rispetto dei principi della nostra democrazia."
A smuovere gli equilibri ha contribuito anche la guerra in Ucraina. Con quale impatto?
"La guerra in Ucraina può essere vista sotto una doppia luce. Una è quella dell'attacco militare e della resistenza ucraina, e di questo si è parlato tantissimo. L'altro ambito di analisi verte sulle ricadute del possibile esito del conflitto. E qui c'entra la globalizzazione."
Perché?
"Il primato americano si basa anche su una superiorità militare e strategica. Oggi chi vuole una nuova globalizzazione potrebbe essere incoraggiato a spingere ulteriormente sull'acceleratore delle proprie richieste, qualora gli Stati Uniti, attraverso l'Ucraina, dovessero perdere il conflitto. Per sintetizzare: una vittoria dei russi sarebbe una sconfitta per l'Occidente e soprattutto per l'America, incrinerebbe il suo prestigio e dunque la sua capacità di leadership globale, incoraggiando i Paesi emergenti a contestare ulteriormente la supremazia a stelle e strisce."
Mentre una vittoria dell'Ucraina e, quindi, degli Stati Uniti per interposta persona?
"Rappresenterebbe la prova evidente che, dopo gli insuccessi in Iraq e Afghanistan, l'America è ancora in sella ed è in grado di gestire contesti drammatici e delicati, come appunto il conflitto ucraino. Dall'esito della guerra ci potranno insomma essere importanti ricadute sulla governance internazionale e sulla possibilità di mutare i suoi pesi."
Chi scalpita?
"Alcuni Paesi del Golfo e la Cina, sicuramente. Ma anche l'Indonesia, il Sudafrica e il Brasile (almeno fino a Bolsonaro). Sono tanti gli Stati che chiedono nuove regole. Gli Stati Uniti, però, non sono disposti a cedere il 'comando'. È per questo che le implicazioni della guerra in Ucraina sono profonde e di lungo periodo."
In uno scenario del genere come si comportano i media?
"Sono da sempre in una posizione di dolorosa critica verso il mondo dei media. Soprattutto quello dei grandi media internazionali a cui anche la stampa europea fa riferimento."
Cosa critichi?
"Da realtà indipendenti e capaci di contrastare in maniera coraggiosa e autorevole il potere, questi soggetti sono diventati, negli ultimi 5 o 6 anni, uno strumento di lotta politica, dimostrando atteggiamenti e scelte che sono chiaramente partigiane."
Puoi fare qualche esempio?
"Basta ricordare come hanno cavalcato, in maniera acritica e viscerale, il Russiagate contro Donald Trump, salvo scoprire che era uno scandalo praticamente inesistente. Hanno taciuto per mesi sulla vicenda, questa sì esplosiva, dei documenti scoperti nel computer di Biden. E che dire dei Twitter Files? Quando Elon Musk ha aperto gli archivi di Twitter ai giornalisti indipendenti, si è scoperto che da anni gli agenti dell'Fbi e della Cia si incontravano regolarmente con i dirigenti del social network per indicare quali fossero gli account - anche di persone famose - da cancellare e quali le idee da oscurare. Si tratta di una censura di molto grave perché è in evidente contrasto con i valori profondi e autentici dell'America. Mi sarei aspettato che su questo tema la stampa intervenisse con molta energia."
E invece?
"Siccome a perpetrare questa censura è stata l'amministrazione Biden, e la grande stampa statunitense tifa per i democratici e per l’establishment, l'argomento è passato quasi sotto traccia o è stato trattato in maniera relativa, dubitativa, quasi a giustificare le misure prese."
E la "grande" stampa europea?
"Anche qui da noi si è trasformata in qualcosa di molto diverso rispetto alle sue origini. Prevale un conformismo che sfocia nel pensiero unico, spesso intimidatorio. Anche in Europa i grandi social hanno applicato la censura e questo deve o dovrebbe preoccupare chiunque abbia a cuore la democrazia; perché una stampa libera e davvero indipendente è un elemento sostanziale del sistema, tanto complicato quanto irrinunciabile, in cui noi viviamo. Purtroppo sono troppo poche le voci controcorrente."
In questo vortice di cambiamento come si inserisce l'Italia?
"L'Italia ha da sempre un ruolo importante. Per la sua collocazione geografica è indispensabile al fine di garantire qualsiasi equilibrio nel Mediterraneo. Non a caso da inizio Novecento siamo al centro delle attenzioni di tutte le potenze."
Quando è arrivata a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni aveva gli occhi di tutte le cancellerie su di lei...
"Assolutamente. All'inizio il suo governo era un osservato speciale. La comunità internazionale voleva testare sia la Meloni sia Lega e Forza Italia per capire se fossero fedeli o meno alla linea atlantica. Oggi conosciamo la risposta. Ei il governo italiano non è considerato un pericolo nei salotti buoni internazionali. Da qui una domanda fondamentale: questo è sufficiente per ritagliarsi lo spazio necessario per fare le riforme promesse agli elettori e imprimere una nuova rotta all’Italia?”
Ovvero riuscirà ad evitare quegli scogli invisibili che oggi limitano l'autonomia decisionale di ogni esecutivo operante nei Paesi occidentali?
"Questo è il grande tema per le sorti del governo.
Bisogna essere consapevoli che è una missione delicata, difficilissima eppure imprescindibile. Se l’alleanza fra Meloni, Salvini e Berlusconi durasse per 5 anni, le possibilità aumenterebbero. Speriamo di essere sorpresi positivamente."- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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