I dolori del giovane Elon

La popolarità di Musk è crollata rapidamente e la campagna di terrore contro Tesla ha lasciato il segno

I dolori del giovane Elon

Sembra che il mondo postmoderno sia una congiura contro i grandi uomini. La burocrazia privilegia la stabilità dell'istituzione rispetto alla visione del fondatore, e la cultura osserva con sospetto chi accumula troppo potere. Il Novecento ci ha insegnato a temere questi uomini piuttosto che ammirarli.

Elon Musk l'uomo che ha rivoluzionato i pagamenti, l'automobile, la robotica, i razzi, le comunicazioni e l'intelligenza artificiale potrebbe essere il più vicino a un «grande uomo» che abbiamo oggi. Una sorta di erede dei «baroni rapinatori» del secolo scorso o dei «baroni spaziali» della fantascienza. Eppure, persino lui, il più brillante tra gli imprenditori del nostro tempo, appare impotente di fronte alla burocrazia manageriale dello Stato americano.

Musk sta lasciando la guida del Dipartimento per l'Efficienza Governativa (Doge). All'inizio, era raggiante e prometteva che il Doge avrebbe ridotto il deficit di bilancio di 2.000 miliardi di dollari, modernizzato Washington e tagliato sprechi, frodi e abusi. Il suo piano di marketing si basava su meme e post sui social media. Lo stesso nome del dipartimento, Doge, era un gioco ironico tra criptovalute, cultura pop e umorismo digitale.

Tre mesi dopo, però, l'entusiasmo di Musk è stato domato. Il Doge ha smantellato l'Usaid, modernizzato il sistema pensionistico federale e migliorato la sicurezza dei pagamenti del Dipartimento del Tesoro. Ma l'iniziativa, nel complesso, è stata un successo a metà. I risparmi, anche secondo i calcoli approssimativi del Doge, non supereranno i 100 miliardi, ben lontani dai 2.000 promessi. Washington è solo marginalmente più efficiente di prima, e il dipartimento non è riuscito a scalfire la naturale inerzia del governo.

Anche la strategia di comunicazione di Musk ha incontrato difficoltà. Il suo linguaggio, influenzato dall'universo digitale, era troppo estraneo al cittadino comune. E la sinistra, come sempre, ha risposto a ogni taglio proposto con storie commoventi, ritratti personali e una campagna di demonizzazione ben orchestrata, dipingendo Musk come un miliardario avido, ansioso di cancellare servizi essenziali e ricerca sul cancro infantile.

Questi attacchi, per quanto pretestuosi, hanno funzionato. La popolarità di Musk è crollata rapidamente e la campagna di terrore contro Tesla ha lasciato il segno: le azioni della società sono scese di circa il 20% nel 2025 e il consiglio di amministrazione ha chiesto a Musk di tornare al comando.

Ma il problema più profondo è che il Doge è sempre stato un progetto confuso. Ha promesso di tagliare il bilancio federale di un terzo, migliorare l'efficienza del governo e sradicare sprechi e frodi. Ma non esisteva alcun percorso realistico per realizzare queste riforme. Anzi, queste promesse hanno distratto da quello che doveva essere il vero scopo del dipartimento: una purga ideologica.

Paradossalmente, proprio qui il Doge ha ottenuto i suoi maggiori successi. In pochi mesi ha smantellato l'agenzia federale più progressista, l'Usaid; ha tagliato i finanziamenti alle Ong di sinistra, inclusi oltre un miliardo di dollari di sovvenzioni al Dipartimanto dell'Istruzione; e ha definito una teoria del potere esecutivo che ha permesso al presidente di sfoltire la burocrazia della cosiddetta Dei (diversità, equità e inclusione)

Musk ha anche identificato correttamente le due chiavi del potere: le risorse umane e i pagamenti. Il Doge ha licenziato gli oppositori ideologici di Trump all'interno della pubblica amministrazione e ha interrotto i pagamenti alle istituzioni più corrotte, aprendo la strada al presidente per bloccare i finanziamenti alle università della Ivy League. Al suo meglio, il Doge è stato un metodo di «de-wokizzazione» mirata, costringendo alcuni elementi attivisti della sinistra a ritirarsi, un programma necessario, ma ben lontano dalle promesse iniziali.

Alla fine, il Doge ha avuto successo dove ha potuto e ha fallito dove non poteva. Ha ampliato il potere presidenziale, ma non ha cambiato radicalmente il bilancio, che continua a dipendere dall'approvazione del Congresso. La crisi fiscale di Washington non è, in fondo, un problema di efficienza, ma di politica. Quando il Doge è stato annunciato, molti deputati repubblicani hanno esultato. Ma era solo una fuga dalle loro responsabilità, una delega che ha scaricato su Musk il peso e la colpa del fallimento del Congresso nel controllare la spesa.

Ora che Musk torna alle sue aziende, resta da vedere chi, se qualcuno, raccoglierà il testimone della riforma del bilancio. Purtroppo, l'esito più probabile è che i repubblicani tornino alle vecchie abitudini: promettere equilibrio di bilancio in campagna elettorale e sforarlo una volta insediati.

La fine del mandato di Musk al Doge ci ricorda che anche i grandi uomini possono essere sconfitti da

Washington. La battaglia per la disciplina fiscale non è finita, ma l'illusione che possa essere vinta con l'efficienza e i meme è svanita. Il nostro destino è nelle mani del Congresso. E questo dovrebbe renderci pessimisti.

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