Dagli anni d'oro al declino. La Lega licenzia via Bellerio

Via anche gli ultimi dipendenti dalla sede milanese un tempo casa di ministri e quartier generale di Bossi

Dagli anni d'oro al declino. La Lega licenzia via Bellerio

La Lega è davvero al verde. Sono stati mandati a casa gli ultimi 24 dipendenti di via Bellerio (tra i quali due dirigenti) che si erano salvati dai primi esuberi del 2014. Allora furono 71 i licenziati.

I fasti bossiani degli anni Novanta sono solo un bel ricordo. Dopo Tele Padania (chiusa nel 2014), la Padania (chiusa nel 2015) e Radio Padania (ceduta nell'ottobre 2016 a Lorenzo Suraci, creatore della galassia Rtl 102.5) in via Bellerio è rimasta solo la polvere. Pure la mensa è chiusa da tre anni fa e altri uffici serrati poco dopo. Un'emorragia inarrestabile che ha spazzato via quell'impero mediatico fortemente voluto da Umberto Bossi. Si parla di una «grave crisi» economica, dovuta agli «elevati costi di gestione» (3 milioni annui, 2,2 i ricavi).

Ma c'è stato un periodo nel quale la sede di Milano del Carroccio era il centro del mondo politico italiano, dal quale transitavano parlamentari, sindaci, segretari e personaggi famosi, che venivano a parlare col Senatùr. Tremonti, Calderoli, Castelli, Maroni, Zaia quando erano ministri nei vari governi Berlusconi erano di casa in via Bellerio, a colloquio nell'appartamento privato di Bossi. E ancora il politologo Stefano Bruno Galli, lo scrittore Massimo Fini, il cantautore Omar Pedrini, il giornalista Paolo Brera, l'avvocato Ettore Adalberto Albertoni, l'architetto Gilberto Oneto.

Quelle stanze erano il centro del potere. Gli anni d'oro, quando dal nulla venne fuori la redazione di un quotidiano, quella di un settimanale, un'agenzia di stampa, una radio e studi televisivi. Un gruppo editoriale che Bossi aveva affidato al presidente federale, l'onorevole Stefano Stefani, responsabile media con potere «di vita o di morte» su tutti. Ex imprenditore orafo vicentino, con modeste nozioni in campo dell'informazione, che con la sola licenza media si era conquistato la protezione del Capo. «Venne creato un network per sopperire al silenzio dei media sulla Lega - racconta Andrea Accorsi, che ha trascorso 18 anni alla Padania - Il periodo più bello è stato il primo, che ha visto crescere queste realtà, un'impresa che sembrava impossibile. Dicevano che saremo durati poco: siamo andati avanti 18 anni».

Momenti di gran fasto ma anche momenti bui, come durante le indagini sulla Guardia nazionale padana , sospettata di essere un'organizzazione paramilitare . Maroni, caricato su una barella, e portato in ospedale, rimane una delle scene più significative, dopo gli scontri con la polizia intervenuta per perquisire via Bellerio.

C'era un bel movimento e Bossi, quando non era a Roma o a Bruxelles, non mancava di fare una capatina nell'ufficio del direttore, sempre dopo le 20. Ci teneva tantissimo alle sue creature e soprattutto alla Padania: guardava la prima pagina, dava spunti sul titolo, sparava qualche frase ad effetto, si faceva portare le bozze delle pagine chiuse e chiacchierava per un'ora a braccio col direttore. Da quelle chiacchierate venivano fuori notizie, retroscena, anticipazioni e vere e proprie interviste che poi il giorno dopo tutti i giornali riprendevano. Questo filo si spezzò con l'ictus del marzo 2004, l'inizio del declino del partito.

Sopra la redazione, Bossi aveva un appartamento (un intero piano era riservato a lui) che molti maliziosamente chiamavano «lo scannatoio». «Molte notti la luce delle sue stanze rimanevano accese e si spegnevano solo verso le 6 del mattino, quando l'ospite o gli ospiti se ne andavano alla chetichella dalla porta posteriore, senza farsi notare - racconta Daniela Bonioli, caposervizio per un anno e mezzo al settimanale Il Sole delle Alpi - Io provenivo da Le Ore dove ho fatto la caporedattrice per 20 anni, ma nessuno ha mai mosso pregiudizi per questo».

Per il Senatùr via Bellerio era casa e bottega. «A volte scendeva giù anche in pigiama - racconta Giulio Cainarca, a Radio Padania dal 1996 - Veniva giù la mattina o ci chiamava per rilasciare una dichiarazione. Si è sempre comportato come il reuccio dell'impero. Il vero direttore era lui. Bisognava stare in campana, faceva trottare tutti».

Qualcuno ricorda anche le sue frequenti scenate. «Aveva appena fatto pace con Albertini, scese in redazione da noi come una furia, dicendo cose pazzesche su di lui», ricordano.

«Andavo ogni tanto in via Bellerio per seguire Bossi - racconta l'ex giornalista del Corriere della Sera Gianluigi Da Rold - e avevo stabilito un bel rapporto con lui, tanto che girò persino il mio nome come direttore de La Padania, cosa mai avvenuta. Non sono mai stato iscritto alla Lega». Così come il primo direttore de La Padania, Gianluca Marchi, che ha detto no a Bossi per due volte prima di farlo capitolare sul piano editoriale. «Presi spunto dall'Unità, volevo esprimere le pulsioni della Lega ma fare anche informazione. Non c'era un soldo così iniziammo con un leasing per comprare i pc.

Chiesi uno stipendio ridotto e una percentuale sulle vendite: in questo modo raddoppiai il mio compenso. Il primo giorno vendemmo 80-90mila copie, alle 9 del mattino erano già finite. Arrivammo fino a 120mila». Quando la Lega non era ancora al verde.

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