Roma. Ergastolo. La sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Ancona conferma la condanna di primo grado per Innocent Oseghale, 31 anni, accusato del delitto di Pamela Mastropietro, 18 anni. «Grande» urla la madre della vittima, Alessandra Verni, alla lettura del verdetto e aggiunge: «Giustizia è fatta». È la fine di una lunga e sofferta udienza in cui l'imputato respinge le accuse. «Ha perso l'ultima occasione per dire la verità», commenta ancora la mamma. La storia. È il 31 gennaio 2018: un passante vede due trolley in un fossato vicino Macerata. All'interno il corpo fatto a pezzi di una ragazza. È quello che rimane di Pamela, allontanata da una comunità di recupero a Corridonia. La giovane, borderline ed eroinomane, il 29 gennaio conosce l'imputato, il nigeriano Innocent Oseghale, all'epoca 29enne, ai Giardini Diaz. Lei cerca droga, lui la spaccia. L'uomo, in Italia da 4 anni, cacciato da un programma di aiuto per rifugiati, vende «roba». Dai primi sospetti alle prove: nel suo appartamento di via Spalato c'è il sangue di Pamela. Accusato di stupro, omicidio volontario, distruzione e occultamento di cadavere, lo straniero si difende: «Non l'ho uccisa, abbiamo fatto sesso poi è andata in overdose». Per l'autopsia lo smembramento del corpo inizia quando Pamela è ancora in vita, usando candeggina per eliminare residui organici. A inchiodare il nigeriano il suo DNA rinvenuto sulle mani e sotto le unghie della vittima nonostante il lavaggio chimico. Ad accusarlo, inoltre, il suo compagno di cella, Vincenzo Marino, ex boss della Ndrangheta. L'uomo fornisce particolari che può conoscere solo l'imputato. Innocent le avrebbe inferto una prima coltellata a una gamba quando lei voleva scappare. La seconda dopo aver cominciato a farla a pezzi perché ancora viva. Una storia agghiacciante ricostruita in aula dal sostituto procuratore Ernesto Napolillo che ha espresso «Tristezza e amarezza per lo scempio. Difficile spegnere il sorriso di Pamela - dice alla Corte -. Non è stata solo barbarie ma un furto di felicità a una ragazza sottratta alla famiglia». «Mi dispiace per quanto accaduto a Pamela - si è difeso Oseghale, assistito dagli avvocati Simone Matraxia e Umberto Gramenzi - ma non l'ho uccisa. Ho fatto cose bruttissime, è vero, ma i fatti così ricostruiti non sono reali». È l'inizio di una lunga lettera che l'imputato legge prima della sentenza: «Ci siamo incontrati ai giardini perché voleva comprare della droga. Mi ha chiesto se mi piacesse e abbiamo fatto sesso nel sottopassaggio di via Scodella. Poi ha iniziato ad agitarsi. Voleva la droga. Siamo andati a casa mia, mi ha abbracciato e baciato, abbiamo mangiato, mi ha chiesto un cucchiaio per preparare la dose di eroina». «Poi è caduta a terra - continua -, aveva gli occhi aperti e non parlava. L'ho sistemata sul letto e ho chiamato Antony, un amico. Il suo respiro era affannoso, sono uscito per portare droga a un amico sperando di ritrovarla in condizioni migliori. Quando sono tornato era già fredda, aveva un colorito molto bianco e le usciva della sostanza dalla bocca». Qui l'idea di farla sparire. «Sono andato a comprare una valigia - continua - ma era troppo piccola per il corpo di Pamela. Così l'ho tagliato a pezzi. Ho chiamato un taxi e ho lasciato le valigie a bordo strada. È la verità.
Ho fatto cose molto brutte ma vi chiedo di giudicarmi senza pregiudizi, fatemi pagare per i crimini che ho commesso. Non giudicatemi per il colore della pelle». I suoi legali: «Ricorreremo in Cassazione perché, a nostro avviso, si sono verificate violazioni di legge che la Corte dovrà accertare».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.