Il Pd fa la guerra pure alle strade "colonialiste"

La proposta: cambiare le targhe delle strade legate alla Campagna d'Africa

Il Pd fa la guerra pure alle strade "colonialiste"

Tu chiamale, se vuoi, mozioni. Sono la passione del Pd, come le ruspe per Salvini. Le mozioni sono la quintessenza della sinistra emotiva tutta battaglie di principio. A patto che però non riguardino problemi concreti tipo buche, Tari o bus, che puzzano e danno fastidio. Quasi quanto i cittadini.

Così, nel suo costante impegno a sembrare sempre più elitario e marziano, il Pd si è intestato un'altra crociata pregnante e in consiglio comunale a Roma ha chiesto di istituire una «Giornata della memoria delle vittime del colonialismo italiano» e di «modificare le targhe delle strade ispirate al colonialismo, riportando sulle stesse una spiegazione che faccia riferimento agli episodi storici, in gran parte criminali». Centrale nel dibattito politico. Ma facciamo uno sforzo e risparmiamoci l'altrettanto banale replica del «signora mia, ma con le bollette alle stelle ci sono ben altre priorità». Facciamo finta di prendere sul serio la cosa e contestarla analiticamente.

Primo, la logistica. Un conto è smontare l'obelisco di Axum e rimandarlo in Etiopia come gesto riparatorio, un altro è stravolgere una città. Perché oltre alle citate via Amba Aradam, largo Ascianghi, piazza Addis Abeba, via Tembien e via Endertà, ci sono via Makallè, via Gadames, via Tigrè, viale Eritrea, viale Somalia, viale Libia, via Tripoli, piazza Misurata, via Benadir, via Cirenaica, via Tripolitania, via Migiurtinia, via Asmara, via Massaua, la fermata della Metro B Libia/Gondar... Dal Quartiere Africano in giù, sarebbe un costosissimo intervento a tappeto. L'ideale per un Comune che nel 2019 registrava 12 miliardi di euro di debiti.

Secondo, la tempistica. C'è un ritardo ridicolo sulla moda del Black Lives Matter e delle statue abbattute, un po' come i sessantenni che scoprono Facebook quando tutti sono già su TikTok. Questa roba andava di moda nel 2020. Tirarla fuori poi nella settimana successiva alla vittoria del centrodestra alle urne suona come una ripicca infantile, tipo nascondere le borsette firmate alla ex che ti ha portato via i Rolex, insomma. Mariuccia's kindergarten.

Terzo, il provincialismo. Più patetico del colonialismo da operetta italiano, costellato di figuracce - dallo «schiaffo di Tunisi» al tracollo di Adua - e innegabili atrocità, c'è soltanto il tentativo di creare a tavolino e a ritroso un epico passato coloniale di cui sentirsi collettivamente colpevoli. Nel comunicato del Pd si dice che «la presenza muta dei toponimi permette di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi». Come se l'italiano medio si vantasse al ristorante eritreo mentre si ingozza di zighinì. Quanta invidia per i compagni della sinistra francese, americana e inglese, che vantano secoli di sterminii e ora possono decapitare i busti degli schiavisti. Qui al massimo si imbratta la statua di Montanelli.

Quarto, l'ipocrisia. Che è la base di tutto il discorso. Perché se si cancellano le vie che richiamano alle «700mila vittime africane del colonialismo italiano», allora perché non allargare l'indignazione alle vittime del colonialismo romano, inteso come SPQR? La fermata della metro Giulio Agricola offende gli scozzesi, i cui antenati caledoni perirono per mano del generale in Britannia; quella Furio Camillo è un insulto per i volsci passati a fil di spada nel 387 a.C. Per non parlare di Piramide, che se fossimo egiziani ci girerebbero i geroglifici a vederla lì a mo' di scherno. E la fermata Lepanto? Islamofoba. Malatesta? Protestano i romagnoli assediati nel Quattrocento. E la fermata Grano inquieta i celiaci. E la fermata Finocchio... beh, no comment.

Cinque, l'opportunità politica. Dalle elezioni, l'intera sinistra italiana è in seduta permanente di autoanalisi e non fa che ripetere quanto l'aver dimenticato i bisogni reali del «popolo» a favore di alti ideali rarefatti abbia causato il tracollo.

E nel bel mezzo dell'esame di coscienza ecco la campagna anti-coloniale, lanciata con la noncuranza con cui si stapperebbe una bottiglia di vino alla riunione degli alcolisti anonimi. L'unica spiegazione è che questo inno alla cancel culture abbia un altro obiettivo segreto: cancellare, insieme al ricordo del Corno d'Africa, anche il ricordo degli ultimi elettori rimasti.

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