La fine era già scritta, ma ad accelerarla ha contribuito il «mal d'Africa» che continuava a pervadere Evgenij Prigozhin, Dimitri Utkin gli altri leader della Wagner. Dietro quell'attrazione fatale si celava il rimpianto per gli introiti assai più cospicui garantiti dagli impegni africani. Introiti che facevano il paio con rischi assai più esigui rispetto a quelli affrontati sulle prime linee di Bakhmut. Il malessere di Utkin e di altri comandanti, decisi ad abbandonare le prime linee ucraine per tornare ai più lucrosi servizi africani era, non a caso, al centro di molte voci diffusesi negli ambienti militari russi nelle settimane precedenti la rivolta del 24 giugno. Dietro quel malessere c'era il sospetto, fiutato da Prigozhin, che la gestione degli interessi di Mosca in Mali, Libia, Sudan e Repubblica Centroafricana stesse per passare in altre mani. Anche perché lo scontro frontale tra il capo della Wagner e il ministro della Difesa Sergei Shoigu spingeva Vladimir Putin a dubitare dell'opportunità di restituire a Prigozhin la gestione di territori cruciali per l'economia e la geopolitica Russia. I primi segnali già s'intravedevano. Secondo il canale Telegram Vchk-ogpu già alla fine di maggio Andrei Averyanov, numero due dell'Svr (i servizi segreti russi per l'estero) aveva autorizzato l'invio in Africa di 20mila uomini dell'esercito incaricati di sostituire i mercenari della Wagner. Queste notizie si mescolavano alle voci sull'arrivo di miliziani messi a libro paga da altre compagnie private russe. Tra queste c'erano la Redut, controllata da Gazprom e dall'oligarca Gennady Timchenko e la Convoi, legata strutturalmente al ministero della Difesa e quindi al «nemico» Shoigu. Secondo alcune interpretazioni proprio il tentativo di sloggiare i suoi dall'Africa - mentre la Wagner combatteva per conquistare Bakhmut - avrebbe fatto infuriare Prigozhin spingendolo alla rivolta. Un desiderio di rivalsa che non si è spento neppure dopo la presunta ricucitura con il Cremlino mediata dal presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Lunedì scorso sui canali Telegram era circolato un video di Prigozhin, ambientato in un non meglio precisato Paese africano, in cui il capo della Wagner annunciava il reclutamento di nuovi volontari per «svolgere i compiti che ci siamo prefissati». Ma il tentativo di riprendersi le «licenze» africane è stata la classica goccia capace di far traboccare il vaso e decretare la fine del capo della Wagner e dei suoi luogotenenti. Solo poche ore dopo il video di Prigozhin veniva annunciato l'incontro a Bengasi tra il viceministro della Difesa russo Yunus-Bek Yevkurov e il generale Khalifa Haftar, l'uomo forte della Cirenaica a cui la Wagner aveva fin qui garantito un indispensabile sostegno militare. Ovviamente l'uscita di scena Prigozhin, il probabile smantellamento della Wagner seguito dalla sua integrazione nell'esercito e dalla riorganizzazione dello scacchiere africano mettono in allerta l'intelligence dei paesi europei. E tra questi l'intelligence di un'Italia che vede scorrere sulle rotte africane i flussi migratori diretti verso le sue coste. In Cirenaica il cambio della guardia russo rischia di compromettere gli accordi faticosamente presi non solo con Haftar, ma anche con altri gruppi ben più coinvolti nel traffico di uomini. Mentre nel Mali c'è il rischio che l'assenza della Wagner restituisca vaste fette di territori settentrionali al controllo dei gruppi fondamentalisti costringendo alla fuga le popolazioni locali.
Insomma la morte di Prigozhin rischia di moltiplicare l'instabilità del Sahel e dell'Africa settentrionale. Senza peraltro garantire il ritorno in gioco di un'Europa che a quelle latitudini resta spiazzata e fuori gioco.
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