Quelle frange radicali dietro la rete anti Tesla

I discorsi sulla "non violenza" servono soltanto a mascherare i professionisti della rivoluzione

Quelle frange radicali dietro la rete anti Tesla

A prima vista, le oltre duecento manifestazioni che lo scorso mese hanno colpito proprietà e concessionarie Tesla negli Stati Uniti potrebbero sembrare poco più che una reazione spontanea, nata dal basso, al ruolo sempre più politico di Elon Musk. Ma dietro lo slogan «Tesla Takedown», presentato dai media come una rivolta popolare e pacifica, si cela un modello ben più sofisticato: una campagna ideata da professionisti dell'attivismo, abituati a navigare con disinvoltura tra la contestazione pubblica e le frange più radicali.

Il movimento ha preso forma il 21 febbraio, con un articolo dell'attivista e regista Alex Winter su Rolling Stone. In pochi giorni, sui social e su piattaforme di mobilitazione come The Action Network, sono apparse centinaia di azioni coordinate. In parallelo, tre attacchi incendiari a sedi Tesla in Oregon, Colorado e South Carolina hanno portato all'arresto di altrettanti individui. Eppure, nonostante la tempistica sospetta, i media hanno liquidato i fatti come eventi scollegati: da una parte «dozzine di proteste pacifiche», dall'altra «incidenti isolati».

In realtà, è la struttura stessa della protesta a suggerire un altro scenario. Tesla non è solo un obiettivo industriale: è un simbolo. E Musk, agli occhi di una certa sinistra radicale, rappresenta la sintesi di capitalismo, tecnocrazia e autoritarismo. Colpirlo non significa solo contestare un uomo o un'azienda, ma cercare di erodere l'egemonia di un'intera visione del mondo.

Questa strategia si basa su un concetto chiave nell'odierno attivismo politico: la «diversità di tattiche». Una dottrina secondo cui un movimento efficace deve articolarsi su più livelli, con diversi gradi di radicalità. Il volto pubblico manifestanti pacifici, inclusivi, ben presentabili attira la simpatia dell'opinione pubblica e l'attenzione dei media. Accanto a loro operano attivisti più determinati, pronti a disobbedire alle leggi, interrompere eventi, bloccare strade. Infine, in posizione più defilata ma non meno centrale, agiscono piccoli gruppi disposti a spingersi oltre: vandalismi, sabotaggi, violenze.

Ogni livello opera con una sua autonomia, ma in sinergia strategica. Nessuno ordina le azioni degli altri, e proprio in questo risiede la forza del sistema: negabilità plausibile. Il volto pacifico non conosce e non deve conoscere chi accende le molotov. Ma il risultato finale è un'escalation ben orchestrata che sposta l'asse del dibattito, crea pressione e genera paura.

Nel caso della «Tesla Takedown», l'impronta dell'attivismo professionale è evidente. Winter stesso ammette di aver contattato organizzazioni esperte. L'intera rete delle manifestazioni si appoggia a strumenti digitali avanzati, come quelli forniti da The Action Network, il cui abbonamento può superare i 4.000 dollari al mese. E dietro le quinte si muovono nomi noti dell'organizzazione radicale americana, come Jeff Ordower, figura chiave dell'ACORN, di Occupy Wall Street e delle proteste di Ferguson. Il suo Disruption Project è stato co-organizzatore di molte delle azioni, prima di essere rimosso dal sito ufficiale ma i collegamenti, come i codici SMS condivisi, restano.

Il linguaggio usato da queste organizzazioni è spesso calibrato. Si dichiara un'inclinazione alla nonviolenza, ma con «rispetto per chi cerca riforme strutturali». È un modo elegante per non condannare l'uso della forza, mantenendo la coesione interna tra i diversi livelli del movimento. Non è un caso che, dopo gli attacchi incendiari, la «Tesla Takedown» abbia pubblicato una dichiarazione in cui si oppone genericamente a «violenza, vandalismo e distruzione di proprietà» senza mai citare gli attentati, né prenderne esplicitamente le distanze.

Nell'universo dell'attivismo radicale, infatti, concetti come «violenza» e «distruzione di proprietà» non sono sinonimi. Anzi, quest'ultima è spesso vista come uno strumento legittimo di lotta. Alcuni studiosi la includono esplicitamente tra le tattiche di disobbedienza civile. Secondo Janet Conway, «la distruzione può essere parte integrante della protesta non violenta». Per RH Lossin, docente a Harvard, rifiutarla per un'adesione astratta alla nonviolenza è un errore: equivale a rinunciare al potere.

Questo approccio genera un effetto preciso. Mentre i manifestanti pacifici ottengono visibilità e legittimità, le frange più radicali agiscono indisturbate, senza esporsi pubblicamente. E l'intero movimento guadagna in impatto, sfruttando l'ambiguità come risorsa.

Il caso Tesla è emblematico di una nuova forma di pressione politica. Non si tratta più solo di scendere in piazza, ma di creare un sistema di livelli che operano in modo complementare. La protesta non è fine a sé stessa: è uno strumento per generare crisi, minare l'immagine pubblica, disincentivare investimenti. Musk è il bersaglio, ma il messaggio è più ampio: ogni struttura percepita come simbolo di potere è un obiettivo legittimo.

Le autorità, vincolate dal rispetto del Primo Emendamento e spesso miopi di fronte alla complessità delle reti attiviste, faticano a rispondere in modo efficace. I media, dal canto loro, sono spesso più propensi a raccontare la facciata pacifica, ignorando o minimizzando ciò che accade dietro le quinte.

Ma è proprio in questa ambiguità che risiede il cuore della strategia.

Una protesta che si presenta come «per lo più pacifica» diventa, nel tempo, un veicolo di radicalizzazione efficace. Una macchina ben oliata che trasforma la pressione sociale in vantaggio politico, senza mai mostrare il proprio vero volto.

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