
«Inutile controllare il proprio 401k in questo momento. Si rischia solo di farsi prendere dallo sconforto». Le parole dei consulenti finanziari e pensionistici erano questi giorni onnipresenti sui giornali statunitensi. La sigla (401k, dalla sezione del codice tributario che lo ha istituito) è di quelle conosciute: indica i piani pensionistici fiscalmente esenti, per quasi tutti gli americani l'unica forma di risparmio previdenziale. Di solito sono molto esposti ai mercati finanziari e hanno preso una bella botta. Chi dovrà andare in pensione nei prossimi due-tre anni rischia di andarci con assegni ridotti. «In questo momento serve prudenza nelle spese», era la parola d'ordine della classe media. Almeno fino alla marcia indietro di Trump e alla sua decisione di una moratoria sulle tariffe.
Alla working class americana, invece, il conto della crisi sarebbe arrivato sin dalle prossime settimane, quando secondo il Wall Street Journal le catene di abbigliamento a buon mercato, che lavorano con magazzini sempre più ridotti, avrebbero alzato i prezzi dei vestiti realizzati e cuciti in Vietnam e Cambogia, tra i Paesi più colpiti dai dazi. Nel frattempo Microsoft ha annullato ieri i programmi per creare tre data center in Ohio, investimento previsto un miliardo («troppa incertezza») e Delta, compagnia aerea, ha abbassato di molto le sue previsioni per l'anno in corso. Un dato importante perché il settore dei viaggi è tra i primi indicatori dell'andamento dell'economia.
Prima del dietrofront della Casa Bianca, che potrebbe rendere possibile un accordo sulle tariffe, la recessione Usa (esclusa da un report di Goldman Sachs) sembrava vicina. E si presentava alla soglia con il volto più pericoloso: riduzione dell'attività economica e aumento dei prezzi. Tanto che tutti si interrogavano sul dilemma del presidente della Fed Jerome Powell. Se avesse abbassato i tassi avrebbe rischiato di lasciare campo libero all'inflazione, tenendoli alti avrebbe stroncato la ripresa.
Le onde della crisi nel resto del mondo non sono tramontate. Secondo la banca d'affari Goldman Sachs, con dazi al 100% (appena meno di quelli che Donald Trump ha stabilito dopo l'ultima ondata) la crescita cinese dovrebbe dimezzarsi. Per l'anno in corso la previsione era del 5%, considerato il minimo per gestire andamento demografico e l'indebitamento ereditato dal recente passato.
«Quanto all'Italia, se i dazi fossero mantenuti gli effetti potrebbero diventare concreti nel giro di qualche mese», spiega Sandro Bicocchi, responsabile dell'Ufficio Studi della società di consulenza Pwc. «Anche se tutto dipende dai settori e dalla velocità con cui si movimentano le scorte nei diversi comparti». In sé la chiusura almeno parziale del mercato americano non peserebbe in maniera catastrofica sul prodotto interno italiano. Pwc è partita da alcune ipotesi «scuola»: con un dazio del 25% e un corrispondente -25% dell'export verso l'America (e dato l'ammontare del surplus commerciale italiano a 64,7 miliardi) la contrazione del Pil della Penisola sarebbe dello 0,11%. In uno scenario ottimistico, con le imprese statunitensi che internalizzano una parte dei dazi e una riduzione della domanda del 15% la contrazione sarebbe del 0,02%. Anche nello scenario peggiore (mercato a-35%) la riduzione del Pil non supererebbe lo 0,2%. «Qualche opportunità si potrebbe aprire strappando quote di mercato a chi ha dazi ancora più alti», aggiunge Bicocchi. «E alcuni imprenditori si stanno già orientando in questo senso». Il tutto però non tiene conto del pericolo di una recessione globale che, nonostante la boccata d'ossigeno arrivata ieri sera, non è del tutto esclusa. Le Borse hanno perso nel complesso 9 miliardi di dollari. Difficile che non rimangano cicatrici ben visibili.
«In questo momento c'è all'opera il nemico più subdolo, quello che blocca davvero tutte le iniziative: l'incertezza», conclude Bicocchi. «Nessuno riesce ancora ad avere idea di come tutta questa storia è destinata a finire».
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