Da quando la destra meloniana è andata al potere una domanda aleggia nell'aria, formulata da molte parti: dall'opposizione in toto, dalla società civile che orgogliosamente si ritiene depositaria del sigillo democratico, dagli intellettuali che profondono risorse di ermeneutica per decodificare i tweet che inevitabilmente compaiono nelle fatidiche giornate dell'orgoglio nazionale. La richiesta è sempre la stessa: «E dillo: sono antifascista».
Niente da fare. Il pronunciamento non viene. Eppure basterebbe così poco per dire la «parola che palpita sulle labbra dei sinceri democratici» (Scurati), facendo scomparire definitivamente dall'orizzonte della democrazia repubblicana lo spettro del fascismo. Lo abbiamo sentito dire decine di volte in chiusa del discorso che Scurati ha portato nelle piazze italiane, letto alla radio, alle tv: «Finché quella parola antifascismo non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana». Troppo bello per essere vero. Forse la questione è un po' più complessa. La sua è infatti una storia lunga. Rivolgiamo il nastro all'indietro.
L'Italia è stata la culla del fascismo. Un regime che ha aperto la strada in tutta Europa a una nuova forma di dittatura, sconosciuta fino allora. Al potere repressivo ha sommato il potere ideologico. Non solo carceri, non solo confino, e purtroppo non solo assassini, ma anche indottrinamento condotto in forma per così dire subliminale attraverso la scuola, lo sport, il tempo libero. È la strada che porta al totalitarismo, imboccata dal regime, che ha fatto scuola a tutti gli aspiranti autocrati. Per chiudere la dolorosa esperienza del ventennio mussoliniano c'è voluta la guerra di Liberazione con la quale è tornata la democrazia. Il merito è delle forze che hanno animato la Resistenza e che in un Paese di 45 milioni di (ex?) fascisti, digiuni di democrazia, hanno saputo compiere il miracolo di costruire una nazione libera dal totalitarismo.
L'antifascismo, inteso come somma delle aspirazioni politiche, ideologiche e culturali, si può a buona ragione considerare il fattore decisivo che in Italia ha prodotto la democrazia. Fin qui tutti d'accordo. Tuttavia, se proviamo a ragionare un po' più a fondo, superando le emozioni che il termine suscita, ci accorgiamo che l'esperienza storica dell'antifascismo si è trasformata nel tempo in una verità assoluta, per la quale l'equazione antifascismo uguale democrazia non teme smentite.
Proviamo a spiegare perché l'assioma (antifascismo=democrazia) potrebbe essere non così saldo, quando non palesemente falso. Si può essere antifascisti e non democratici, mentre un democratico è per forza di cose antifascista. Stalin è diventato l'eroe che ha piegato a Stalingrado l'armata nazista eppure non si può dire che sia stato un campione di democrazia. Allo scoppio della guerra mondiale non aveva avuto problemi a stringersi in un abbraccio con Hitler pur di soffocare la Polonia.
L'assunzione dell'antifascismo da esperienza storica ad assioma fondativo della democrazia è stata un'operazione eminentemente politica. Il valore dell'antifascismo si è fatto risorsa politica. Sono gli anni della guerra fredda e il Pci, nato con la missione di «fare come in Russia», è chiamato a ridisegnare il suo progetto rendendolo compatibile con l'inserimento dell'Italia nella sfera atlantica. Ha bisogno di legittimazione. L'antifascismo viene elevato a valore identitario della sinistra. Per il suo contributo determinante, offerto nella lotta di liberazione e nella stesura della Costituzione la sinistra ha le carte in regola per dirsi custode dei valori democratici. Intestarsi il valore dell'antifascismo le offre anche un doppio vantaggio. Le procura una salda legittimazione e al contempo le consente di negarla alla destra, rappresentata in Parlamento dal partito neofascista, il Msi, e, per un decennio, dai monarchici. In altre parole, il partito di Togliatti cerca di rendere l'antifascismo la discriminante che contrappone «i partiti dell'arco costituzionale» alle forze, come appunto il Msi, che la Costituzione non l'hanno costruita e nella quale faticano a riconoscersi. In tal modo, riesce a mettere con le spalle al muro la Dc, cui intima di non tradire la sua identità di forza partecipe della Resistenza nel momento in cui è tentata di contrarre una collaborazione con i nostalgici del fascismo.
L'antifascismo è una risorsa politica che può essere usata indifferentemente in più versioni. Può essere vantata come fosse il lievito che ha prodotto la sollevazione corale di popolo o viceversa l'iniziativa eroica di una ristretta avanguardia consapevole. Dipende dalla contingenza politica. Può servire a richiamare la Dc alla sua natura di partito popolare in vista della costruzione di un governo di solidarietà nazionale. Ma risulta funzionale, nella seconda accezione, pure a incriminare il partito democratico cristiano di antifascismo tradito, quando si volge alla creazione di un blocco anticomunista. L'antifascismo può coniugarsi sia con il confinamento nel ghetto dei reietti di Salò, votati a animare la sovversione dello Stato democratico (anni di piombo), sia con la loro reintegrazione nell'alveo democratico, perché italiani che in buona fede hanno abbracciato «la causa sbagliata» per l'indottrinamento subdolo attuato dal regime (amnistia Togliatti del giugno 1946). E ancora: l'antifascismo può essere proposto in una versione light o in una hard. È il sentimento che ha animato gli italiani di tutte le fedi politiche o al contrario specificatamente i partigiani che hanno visto nella Resistenza la premessa e la promessa di una conquista rivoluzionaria dello Stato.
Può variare la declinazione dell'antifascismo, ma il risultato è sempre lo stesso. La destra è confinata in un ghetto. Il suo spazio parlamentare diviene un deserto inospitale. La Repubblica italiana per cinquant'anni è stata l'unica democrazia occidentale che ha avuto una destra ridotta al 4% offrendo l'immagine (falsa) di un Paese tutto orientato a sinistra o tutt'al più a un «centro che guarda a sinistra» (De Gasperi). Una plateale asimmetria con il paese reale, che era ben presente a tutti i partiti, proprio per questo orientati ad alzare l'argine dell'antifascismo per impedire alla marea della «maggioranza silenziosa» di tracimare. Ne era pienamente consapevole lo stesso Partito comunista che finì per fare del contenimento della destra il presupposto del «compromesso storico». Una strategia con cui cancellò dal suo orizzonte l'idea stessa di poter dar vita ad uno schieramento alternativo di sinistra, proprio per la paura di subire una controreazione di destra, come ammoniva il caso drammatico del Cile di Allende, finito nella dittatura di Pinochet.
L'antifascismo alla fine non è riuscito a rilegittimare pienamente il Pci. In compenso ha confinato la destra in un ghetto, abitato solo da una conventicola di «vinti», inducendoli ad aggrapparsi alla loro identità nostalgica per resistere, a quella che a loro appariva come «la persecuzione antifascista».
Come per tutte le forze antisistema, anche per la destra italiana, identità e memoria sono stati i pilastri su cui essa si è retta sin dalla sua costituzione in partito. Una volta forgiati, questi suoi tratti costitutivi si sono confermati irrevocabili, perché utili a sostenere la lotta con un ambiente esterno ostile. Non troncando il legame con un passato irricevibile dai democratici, la destra è vissuta in una condizione di continua emergenza, braccata per un verso dal «regime antifascista», impossibilitata dall'altro a competere a armi pari con la sinistra perché priva di un altrettanto possente supporto elettorale e di un reale potere coalizionale. La convivenza di queste due istanze contraddittorie, tendenzialmente divaricanti, ha resistito a lungo per il carattere - oseremmo dire spiccatamente esistenziale, più che politico, della sua identità. Un'identità che si è saldata a una memoria non negoziabile, il che non le ha impedito comunque di essere alquanto adattabile ad alleanze e programmi anche incoerenti con la sua constituency.
Il suo punto fermo irrinunciabile è stato solo l'indisponibilità ad accettare rimemorazioni negative del regime fascista, Rsi compresa, tanto meno a sottoscrivere un suo svilimento, non parliamo poi di un suo rigetto. Non è stato risparmiato a Gianfranco Fini l'aver osato denigrare il fascismo storico come «male assoluto del '900». È rimasta per questo motivo la contraddizione tra una memoria bloccata sulla stagione maledetta del fascismo e la ricerca di un'identità ripulita dal marchio neofascista che le permettesse di mettere a frutto le nuove opportunità offerte dal gioco democratico.
Risultato: si sono fissate due opposte identità, l'una anti e l'altra pro sistema. La prima decisiva per tenere saldo e unito il popolo neofascista, la seconda cruciale per permettere ai suoi vertici di giocarsi le opportunità offerte dalla competizione politica all'interno delle istituzioni. Sono due identità che nella Prima Repubblica corrono come due parallele destinate a non incontrarsi mai. Crisi delle ideologie e crollo del muro di Berlino, da ultimo, hanno finito per favorire l'opzione di un pieno inserimento nell'agone democratico. La destra si è allora convinta dell'improrogabilità di operare lo sganciamento da quell'ingombro che le ha sempre impedito di dilagare nella distesa dell'opinione pubblica conservatrice. Si è ritrovata così di fronte al dilemma: se sostituire l'identità neofascista con un'identità liberale o far conto solo sulla sua lenta estinzione per causa naturale.
La prima sarebbe stata un'operazione dolorosa, addirittura traumatica, per un partito dalle matrici antisistema. L'abiura della propria fede originaria restava un passo troppo oneroso, mentre la lunga convivenza all'interno delle istituzioni sedimentava nel tempo comportamenti leali nei confronti della democrazia. Proprio perché consapevoli degli enormi costi, in termini di dissenso, che l'abbandono della propria identità avrebbe comportato, i vertici dei vari partiti alternatisi alla testa della destra non hanno mai avuto il coraggio di mandare definitivamente al macero l'identità neofascista. Hanno preferito lasciarla consumare così che il distacco avvenisse nel modo più indolore possibile, limitandosi a offrire della propria memoria storica versioni edulcorate, mai pienamente convincenti. Lungi dal «fare i conti col fascismo», si potrebbe affermare che la destra si sia limitata, per ricorrere ad un'espressione icastica di Alessandro Giuli, ad «espellere il tutto come un calcolo renale».
Il processo per non essere doloroso - s'è detto - ha bisogno di tempo. Molti passi su questa strada, tuttavia, sono stati compiuti: prima, la condanna delle leggi razziali, ultimamente anche il riconoscimento, con parole decise, che «la fine della guerra pose le basi della democrazia».
Cosa si può ancora chiedere alla leader di Fdi? La si può spronare a riconoscere espressamente il contributo offerto dalla Resistenza alla caduta del fascismo, ma non di rivoltare l'antifascismo da dato storico in assioma che si pone come valore e forza fondativi della democrazia, magari anche imprescindibili per creare una democrazia compiuta. Insomma, non si può chiedere alla destra di far propria la versione che vuole l'antifascismo la sola risorsa politica da usare per costruire una vera democrazia.
Molti sono gli indizi che lasciano supporre che questo sia il fine ultimo di chi, anche sottotraccia, le chiede di chiudere la partita della sua ghettizzazione riconoscendo, apertis verbis, il ruolo insostituibile dell'antifascismo nella nascita della democrazia repubblicana. Quali sono le contraddizioni di una simile richiesta? Come può il semplice pronunciamento «sono antifascista» rimediare a un presunto dato costitutivo della sua personalità politica se è proprio dalla parte avversa che si tende a ricacciarla inesorabilmente sul terreno insidioso del passato? Solo alcuni esempi.
Si sostiene da più parti che Meloni ha un'anima fascista (o peggio di essere «neonazista nell'anima» con buona pace di Lucrezio), con un'attribuzione di assoluta illegittimità. Le si attribuisce il disegno di condurre la Repubblica fuori dall'alveo democratico (con il premierato, la censura e altro ancora).
Come può dunque un tale pronunciamento liquidare, come fosse un sortilegio, un disegno eversivo? E ancora: anche quando si riconosce che non ci si deve aspettare il fascismo delle camicie nere e dei manganelli, non si manca per questo di denunciare il tentativo in atto da parte della destra di affossare la democrazia, un tentativo forse ancor più pericoloso perché non attuato con la violenza fisica, ma con quella subdola dello smantellamento dello stato di diritto.Forse dietro la riluttanza della destra a sottoscrivere la professione dell'antifascismo si nasconde proprio il timore di avallare un'ideologia che prescrive la sua delegittimazione, sempre e comunque.
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