Se oggi le città occupano il 2%della superficie globale, ospitano il 54% dell'umanità - oltre 3,9 miliardi di persone - emettono il 75% dell'anidride carbonica liberata nell'atmosfera, nei prossimi dieci anni la superficie terrestre urbanizzata arriverà al 10% e ospiterà il 70% della popolazione mondiale, oltre 7 miliardi di persone che produrranno il 90% dell'anidride carbonica. Di male in peggio, potremmo dire.
Di fronte a questo scenario che fare? Gli atteggiamenti si dividono, come sempre. La maggioranza populista che adesso trionfa nega i dati scientifici, grida al complotto delle élites e attribuisce il global warming alla Terra, che sarebbe semplicemente fatta così. Simboli di questa linea, diciamo di pseudo-pensiero, Donald Trump, Xi Jinping e gli ultraliberisti di Wall Street, insieme ai terrapiattisti e ai cacciatori di rettiliani. La minoranza invece, forte nelle università d'élite, i media liberal e i salotti in centro, professa l'ambientalismo integrale, la rigenerazione circolare, il blocco dei consumi, soprattutto quelli degli altri. E si identifica con Greta Thunberg, Barack Obama, Leonardo di Caprio e le vecchie zie di Guido Gozzano, nostalgiche dei piccoli mondi antichi dove secondo fior di intellettuali dopo la pandemia saremmo tutti tornati.
Sarebbe bello poter scegliere l'una o l'altra posizione, ma purtroppo entrambe sono solo retoriche demagogiche pericolose. Se la correlazione tra climate change ed emissioni di CO2 dovute al lifestyle capitalista degli ultimi duecento anni è un fatto non controvertibile, le case passive, le facciate verdi e le campagne di sensibilizzazione sono palliativi se non veri greenwashing. Del resto, come pensare di attribuire alla Natura le responsabilità dei nostri comportamenti umani? Come chiedere alla Natura di risolvere problemi che l'uomo continua a creare a partire dall'Italia, dove si producono 450 milioni di tonnellate di anidride carbonica all'anno e si hanno alberi sufficienti per assorbirne 50? Anche decidendo di piantare alberi per arrivare ad assorbire 400 milioni, ipotesi che è destituita di qualunque realtà, non potremmo farlo perché oltre ai soldi manca lo spazio. E allora?
Allora se vogliamo rispondere seriamente alla domanda che oggi le città ci pongono occorre il coraggio della verità. E la verità è che qualsiasi attività umana produce inquinamento, consumo di risorse e carbon footprint. Per questo non sarà mai possibile arrivare all'impatto zero salvo un'estinzione di massa della specie Sapiens che alcuni scienziati non escludono. Ma se l'estinzione non è in nostro potere possiamo decidere di tornare a un'architettura solida e frugale, insegnata da una storia ricca di lezioni di parsimonia, riuso, resilienza che non hanno mai scelto tra impegno e bellezza, perché solo un edificio che dura nel tempo usa bene i mezzi che ha consumato. E solo una casa bella trasforma la vita di chi l'ha voluta e soprattutto di chi non l'ha voluta e se la trova tutti i giorni di fronte.
Città significa almeno tre cose. Urbs, ovvero eterogeneità di edifici pubblici e privati. Civitas, l'insieme delle regole e delle consuetudini che regolano ogni attività. Infine, la città è Communitas, di cui ci si sente parte non solo perché si è costretti a interagire in uno sviluppo incrementale che si crea e si distrugge generazioni dopo generazioni. Quando questi tre livelli coesistono e si intrecciano siamo di fronte a una città degna di questo nome. Erano città Roma, Siena, Parigi, Londra, Il Cairo, e sono città del futuro come Dubai, Seoul, Lagos, Riyadh, Mumbai, Shenzhen.
Oggi bisogna fare molte cose in poco tempo. Riprendere a costruire più densamente, a partire dalla rigenerazione dei brown fields, le miriadi di aree dismesse e abbandonate che salveranno la colonizzazione di nuovi terreni, foreste, paludi preservando la biodiversità. Riunire le funzioni commerciali, industriali, residenziali, culturali e ricreative che le città hanno ovunque separato in una compartimentazione taylorista superata dalla storia che magari è pulita e ordinata ma algida e alienante. In questo senso il progetto The Line di NEOM è un'ipotesi estrema ma che indica una via. Infine, rivedere le politiche di mobilità privata che hanno rivoluzionato in meglio il Novecento e accelerato in peggio l'inquinamento globale e la dispersione in suburbi, periferie e shopping mall.
Riusciremo? Probabilmente no, perché non basta tornare all'architetto «muratore che parla il latino», che sognava Adolf Loos. Occorre una metànoia collettiva, una nuova leadership che elabori un sistema di valori individuali, sociali e politici corrispondenti al lessico dell'emergenza. Ispirandosi magari al Weissenhofsiedlung che Mies Van der Rohe, Walter Gropius e Le Corbusier immaginarono nel 1927: case semplici, efficienti, di buona qualità e a loro modo anche belle. Oppure all'idea di persona realizzata dall'Asilo di Giuseppe Terragni a Como del 1935, dove i bambini vengono avvolti dalla luce dello Spirito e portati verso il futuro. La verità che per tentare davvero occorre essere davvero disposti a rinunciare, perché nessuna soluzione funzionerà senza abbandonare parte del nostro stile di vita. E qui ci troviamo davvero nei guai, perché tutti vogliamo sempre risolvere i problemi ma nessuno è disposto a rinunciare a niente. D'altronde abbandonare il lifestyle urbano è difficile perché il successo delle città è dovuto alla loro seduzione, alla promessa di progresso economico, sicurezza, cultura ma anche piacere, eccitazione, vertigine del potere.
Da seimila anni l'uomo sfugge alla paura della morte rifugiandosi nelle città, cattedrali laiche che ci precedono e ci sopravviveranno, che consumano da sempre troppa energia ma sono state capaci di sfidare tempo, guerre, epidemie, terremoti. Luoghi che ci hanno trasformati in quello che siamo, esseri artificiali, simbolici, creativi, viziati. Se l'uomo non fa più parte della natura, come sosteneva Theodor W. Adorno, la responsabilità è prima di tutto della città.
Dobbiamo accettare che le città sono a nostra immagine e somiglianza: imperfette, incoerenti, irrazionali. Per quanto potremmo rifarle solide, durevoli e persino belle non saranno mai sostenibili, circolari, a impatto zero. Non potranno esserlo perché ogni tentativo di pianificazione si è dimostrato un tragico fallimento, come nelle banlieue francesi, le favelas brasiliane, le new town cinesi, le smart cities africane.
Per migliorare le città dobbiamo abbandonare l'utopia della città perfetta senza per questo accettare la realtà imposta dai developer globali, che vogliono città fatte di grattacieli altissimi, identiche e anonime ad ogni latitudine perché così si fa prima e si guadagna di più. Se vogliamo cambiare la nostra vita dobbiamo riadattare le città che abbiamo costruito al genius loci, alle tradizioni, alle differenze liberandole dalle macerie della cancel culture perché l'energia della città deriva dalla sua confusione spaziale e sociale.
Ultima riflessione. Non possiamo più urbanizzarci troppo, in fretta e male perché non ce lo possiamo permettere. Occorre una nuova sobrietà, un nuovo principio di realtà, nuovi golden standard. Anche perché se le classi emergenti della terra - cinesi, indiane, arabe, africane - dovessero scegliere di vivere come hanno vissuto gli americani, con le loro pretese di gestione dello spazio, con le domande di consumo di risorse, con la ghettizzazione delle differenze ne avrebbero diritto ma paralizzeranno il globo in tempi rapidissimi.
Speriamo che i nuovi leader globali comprendano quello che noi non abbiamo voluto capire perché ci faceva più comodo.
È l'ultima possibilità per riempirci la bocca di cibo a chilometro zero, respirare l'ottimismo della finanza globale e commuoversi per la nostalgia delle vecchie zie, segretamente affascinate da Elon Musk che vola verso Marte con Giorgia Meloni.
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