Vladimir ha le corde vocali che supplicano per una pausa. Comunque strillare serve a poco. Si sporge dalla sala macchine della locomotiva per indovinare la sagoma del figlio che fluttua sui binari. Non è davvero in pericolo. Non lo è mai stato. Solo che a Dejan piace così: le rotaie che iniziano a tintinnare gli passano un brivido gelido lungo il solco della schiena. D’un tratto si sente vivo. La sfida è raccolta e vinta, perché scansa sempre i treni che penetrano come un soufflé la stazione di Titograd. Quasi un gigantesco dribbling. A volte sogna di agganciarsi, di salire al volo, per spingere via la fregatura di essere nato lì.
Vladimir di cognome fa Savicevic. È un capo stazione rispettato e temuto. Da solo orchestra almeno novecento uomini. L’unico che si rifiuta di prestargli ascolto è quel ragazzino gracile e sfrontato, una nuvola di capelli arricciati a coronare l’espressione perennemente insolente. “Forse ha bisogno di trovare uno sfogo. Mandiamolo a fare sport”, suggerisce la mamma. Dejan prova con il karate: se la cava, ma non se lo sente addosso. Quando invece inizia a passarsi un pallone tra i piedi le cose prendono una piega diversa. Ammansisce naturalmente i passaggi più velenosi. Intravede pertugi dove tutti girano al largo. Concepisce gol di una fattura quasi impudente.
Savicevic junior è un treno di finte e acrobazie pallonare destinato a partire presto. La prima destinazione più fulgida è la Stella Rossa di Belgrado, enclave del talento serbo più scintillante. Lui a brillare ci mette pochissimo, al punto che i giornali lo inquadrano subito come “La stella della Stella”. Segna il giusto, ma fa solo gol incantevoli. Distribuisce assist a manovella e regola la temperatura delle partite, che inizia a vincere da solo, piegandole ai ritmi imposti dalla sua straripante volontà.
In Italia ce ne accorgiamo per la prima volta il 31 marzo 1988 quando a Spalato, contro la nazionale che fa debuttare Paolo Maldini, Dejan risulta di due spanne il migliore in campo. All’epoca ha soltanto 22 anni e un futuro radioso che si srotola al suo cospetto. Lo addenta – e per sua fortuna riesce a trangugiarlo – anche il Milan. Giovanni Galli gli para un calcio di rigore e i rossoneri accompagnano la Stella Rossa nel parcheggio della coppa dalle grandi orecchie, quella che solleveranno contro la Steaua. Dejan vince la sua a Bari, nel 1991: successo ai rigori contro il Marsiglia. In patria di lui scrivono: “è il Platini dei Balcani”.
Seduto nel suo studio, un imprenditore milanese che sta per scendere in politica fa scorrere il nastro della Vhs che gli hanno consegnato a ritroso e in avanti, irrimediabilmente sedotto dall’estro di quel talento. Poi alza la cornetta, compone il numero giusto e dispone: “Voglio questo Savicevic, è una mia scelta”. E Dejan arriva, strappato alla potente concorrenza degli Agnelli. È l’estate del 1992 e lui è stato persuaso dal fatto che Gullit e Boban siano con le valigie pronte. Ci sarà spazio fin da subito per esprimere le sue qualità.
Invece nemmeno per idea. Quando guadagna il suo armadietto a Milanello scopre che la concorrenza interna è tutt’altro che evaporata. Davanti a lui ci sono Van Basten, Gullit, Rijkaard, il nuovo arrivato Papin – che gli ha strappato impunemente il pallone d’oro un anno prima – e anche Zorro Boban. Capello dapprima lo scruta perplesso, poi lo confina sulle fasce, invertendolo spesso, senza sortire i risultati desiderati. Savicevic scivola presto in panca, il luogo fisico che detesta da sempre con ogni fibra del suo corpo. Il suo vangelo è infatti monotematico: giocare, giocare, giocare. Quando non succede diventa subito un arnese difficilmente maneggiabile, un concentrato di irascibilità che si scaglia contro l’allenatore di turno. Al c.t. Osim, in nazionale, ad esempio dice: “Io in panchina? Nemmeno per idea. Vacci tu che sei abituato”.
È un primo anno terribile. Dejan finisce presto ai margini, relegato nelle retrovie del pensiero di Don Fabio. La sua atomica stoffa viene diluita, ma non svanisce. Rimane nell’aria, destinata ad agganciare una corrente ascensionale. Come uno di quei treni su cui fantasticava di salire in corsa. Il vortice lo innesca l’impatto tra due correnti contrarie. Silvio Berlusconi resta persuaso della sua scelta: Savicevic è un fenomeno, deve solo trovare l’ecosistema ideale per dimostrarlo. Capello scuote la testa, ma il Cavaliere non demorde: “Guardalo, ti fa sobbalzare sul divano ogni volta che tocca palla”.
Il tifo rossonero intanto mugugna: “Ma quale genio, questo è un bidone colossale”. Lui, oppresso da un’esperienza tramortente, chiede di essere ceduto. Nulla da fare, deve restare. Ordini del Cav. Qui il destino inizia ad annodarsi seguendo un filo diverso. La fortuna viene in soccorso del talento. Con Rijkaard che torna all’Ajax e Gullit ceduto alla Samp si aprono spazi inediti. Ora Capello dice di puntarci, ma la promessa di un Savicevic trascinatore è presto infranta. Dejan fluttua ancora a centrocampo, passando senza costrutto da una fascia all’altra. Come alla stazione dei treni di Titograd, ma stavolta finendo puntualmente sotto.
Il mister è infastidito e lo confina di nuovo in panchina. Lui non l’accetta e sorge una rissa mediatica. Un rapporto che non c’era mai stato si incrina ulteriormente, lambendo la definitiva rottura. Poi Marco Simone si infortuna e Papin si inceppa. Improvvisamente Dejan viene eletto seconda punta. Si scrive “diversa collocazione tattica”, ma puoi leggerlo “manna celeste”. D’un tratto Dejan diventa – o forse torna – un calciatore imprendibile. Un fenomeno quasi circense nella filosofia e tremendamente efficace nel metodo. Il finale di campionato diventa grandioso: terzo scudetto di fila. Il dessert però è ancora più succulento.
Il Diavolo è in finale di coppa dei Campioni. Si gioca ad Atene, contro il monumentale Barcellona di Cruijff. Il divario sembra talmente ampio che l’olandese si lascia scappare esternazioni deliranti: “Dio è mio amico, è impossibile che io perda questa partita”. Strafottente, certo, ma dietro mancano pur sempre Baresi e Costacurta. Berlusconi scende nello spogliatoio e prende il suo asso da parte: “Senti Dejan, sono due anni che ti difendo. Ora mostra che non mi sono sbagliato”.
Il resto è inciso negli annali. Quello che appariva un trionfo scontato si trasforma in mortificante disfatta. Il Milan vince 4-0, trascinato da un Savicevic disumano. Il pallonetto con cui infila Andoni Zubizarreta – non il portiere del circolo ricreativo parrocchiale – è un’installazione d’arte contemporanea. Folle nel pensiero, chirurgico nell’esecuzione. I tratti distintivi del genio, in fondo.
A fine partita Silvio, finalmente, gongola: ci ha preso ancora una volta.Savicevic invece inspira a pieni polmoni l’aria spessa della notte greca. Ha deragliato molte volte, ma alla fine è arrivato in stazione.
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