La tecnica ci aiuta a sopravvivere ma l'intelligenza è molto di più

Carlo Sini spiega come il progresso sia connaturato alla nostra evoluzione. Ma avverte: lo strumento è neutro, il pensiero no...

La tecnica ci aiuta a sopravvivere ma l'intelligenza è molto di più
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La questione della tecnica si è trasformata negli ultimi decenni in una dimensione totalizzante e, con essa, la sua diramazione più epidermica, quell'intelligenza artificiale divenuta, ancor prima che opportunità economica e sociale, imprescindibile problema etico.

Carlo Sini che, da sempre, pratica la capacità di spiegare in modo semplice cose complicatissime parte da un presupposto incontestabile: tecnica e umano si incrociano sin dalla notte dei tempi e se all'uomo viene tolta la tecnica si approssima a un animale. Dalla preistoria in poi è stato infatti un continuo sperimentare, nel costante tentativo di superare limiti fisici e biologici. Nel suo ultimo lavoro (Intelligenza artificiale e altri scritti, Jaca Book, pagg. 192, euro 18) ribadisce ancora una volta che la nostra specie si sarebbe estinta se non fosse stata capace di adattarsi e trasformare l'ambiente per le proprie necessità («l'essere umano è tecnologico per essenza, è tecnologico per struttura e per destino»), cosicché il lungo cammino della strumentazione umana, progredendo senza tregua, tocca il suo apice con l'Ia. Ma è proprio per questo motivo che - cadendo in una sorta di equivoco il nostro utilizzo della parola «intelligenza» sarebbe improprio perché il perfezionamento complessivo tra umano e tecnica procede ininterrotto da millenni. L'esempio a cui ricorre è quello del bastone. Nessuno ritiene che il bastone che ci colpisce sia in grado di pensare, perché è del tutto evidente che a muoverlo sia una mano. Confutando l'affermazione che gli automi di nuova generazione possano «pensare» ma, al contrario, esprimere più banalmente altissime capacità tecnico-progettuali e produrre operazioni molto più esatte di quanto possa fare un umano, pone il discrimine teorico di una intelligenza umana che preventivamente programma e definisce parametri e confini. In fondo, vale la metafora del bastone, cioè dello strumento neutro e senza fini («Se te lo do sulla testa, fa molto male, ma la colpa è mia»).

Ecco perché l'invito è a liberare la scienza dalla superstizione naturalistica (il riferimento è alle teorie espresse da Husserl in Crisi delle scienze europee) e a lasciar perdere divagazioni poetiche, letterarie o distopiche che si concentrerebbero solo su paure e speranze.

Pur tuttavia, a differenza di ciò che sostiene Sini, il quadro è allarmante. Nessuno nega (tranne pochi paranoici) che la tecnica sia stata (e sarà) sostanza e forma della umanità. Necessario è però riconoscerne non solo la doppia valenza (positiva e negativa) ma una capacità onnipervasiva che trascende la stessa utilità di fruizione.

Se Sini identifica nel peso del nostro patrimonio di conoscenze sociali, familiari e culturali la chiave di volta per conferire un costante e deciso imprinting umano alla direzione di marcia delle «macchine», va per altro verso aggiunto che la tecnica ci cambia, e anche nel profondo, e quelle conoscenze, a cui lui si richiama, rischiano di essere irrilevanti perché assistiamo all'intrusione pervasiva in ogni ambito della vita e ad una radicale trasformazione antropologica.

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