Addio a Vaclav Havel Era il simbolo ceco della lotta al comunismo

Fu profeta del nuovo millennio e delle sue ipocrisie perbeniste Lo consideravano "di destra", soltanto perché anticomunista

Addio a Vaclav Havel Era il simbolo ceco della lotta al comunismo

Quando vissi a Praga per un paio di mesi a cavallo della caduta del comunismo nel 1990, conobbi Vaclav Havel e poi ci ripromettemmo sempre di fare un libro-intervista che per motivi vari e contingenti non si fece più anche perché lui diventò prima presidente della Cecoslovacchia e poi della Repubblica Ceca dopo la scissione dalla Slovacchia: il cosiddetto «divorzio di velluto» dopo la sua «rivoluzione di velluto» che inaugurò l'era delle rivolte civili senza armi, festose, pressanti.

Mi ripeteva allora, quando ci vedevamo nella mia modesta casa nella via Franzuskaia (dalla grafia più complicata che non so riprodurre) quale era il suo timore più grande e, aggiungo io, profetico. Il suo timore era che, dopo la caduta del comunismo sovietico e dunque della ingombrante impalcatura della guerra fredda, sarebbe poi venuta l'era della menzogna globale, del politicamente corretto, della finta etica e della finta estetica dei giornali manipolatori ed egemoni, dell'anestesia diffusa e perbenista in una forma di ipocrisia suscettibile e irascibile che infatti sta diventando la cifra del secondo millennio: quella della rinuncia alla verità e della banalità travestita da moralità.

Vaclav non voleva più truppe straniere sul suolo ceco, ma gradiva comunque qualche batteria di missili americani perché era sicuro che soltanto gli Stati Uniti avrebbero garantito la sicurezza contro la Russia comunque ribattezzata e travestita. Aveva assaggiato, lui uomo di teatro messo al bando, le gioie del regime sovietico insieme a Milan Kundera che nel 1968 scriveva la prima stesura de «L'insostenibile leggerezza dell'essere» mentre il mondo occidentale fingeva di scandalizzarsi per la repressione dei carri armati in Boemia. In realtà l'Occidente aveva chiuso entrambi gli occhi ed era sollevato dalla fine del rischio che il germe cecoslovacco attecchisse e che la «Primavera di Praga» dilagasse. Pochi si accorsero della grande oscenità: truppe tedesche erano tornate in armi sulla terra che avevano insanguinato durante la seconda guerra mondiale.

Havel mi rivelò ciò che poi ho potuto verificare documenti alla mano quando, come presidente della Commissione Mitrokhin, ho potuto leggere i verbali segreti delle riunioni del Patto di Varsavia (La «Nato dell'Est») che documentavano un fatto di enorme portata e infatti dimenticato: il Patto di Varsavia, sotto gli ordini del Cremlino, cercò sempre la soluzione militare contro l'Occidente ed era sempre sul punto di scatenare la terza guerra mondiale per catturare l'Europa Occidentale, cose resa impossibile dall'incolmabile gap tecnologico negli armamenti. E questo era accaduto in particolare a causa della resa occidentale di fronte all'invasione del 1968.

Havel disse infatti che quando le armate del Patto di Varsavia entrarono a Praga nell'agosto del 1968, trovando soltanto la resistenza di studenti e operai che brandivano libri, erano guidate da ufficiali sicuri di incontrare le truppe occidentali della Nato. A Mosca erano sicuri che a Washington, come a Parigi, a Londra e a Bonn, i leader occidentali non avrebbero consentito che Praga subisse lo stesso destino che l'Armata Rossa aveva inflitto a Budapest nel 1956. I generali del Patto di Varsavia, disse Havel, avevano avuto l'ordine di non ingaggiare ad alcun costo un combattimento e di ritirarsi, considerando quell'operazione come un test: avrebbe l'Occidente girato la testa dall'altra parte, o avrebbe reagito?

La riposta fu chiara: l'Occidente abbandonava i patrioti boemi. E anche i partiti comunisti occidentali, che inizialmente furono critici nei confronti dell'intervento, voltarono le spalle e dimenticarono, comunisti italiani in testa, proprio loro che nel 1956, con una azione intimidatoria di Togliatti e del gruppo dirigente di Botteghe Oscure, avevano preteso da Krusciov la repressione nel sangue e nella vergogna della rivoluzione ungherese.

Molti anni dopo mi rivolsi personalmente a Havel, come Presidente della Commissione Mitrokhin, per avere notizie del famoso «dossier cecoslovacco» con l'elenco non soltanto delle spie che facevano il doppio gioco, ma dei campi d'addestramento, a partire da Karlovy Vary, di cui si erano serviti i nostri brigatisti rossi e numerosi rivoluzionari e guerriglieri che avevano trovato protezione in Cecoslovacchia. Si trattava di un insieme di attività su cui Havel ordinò molte inchieste e che risalivano ai tempi in cui «Radio Praga» trasmetteva propaganda moscovita in italiano, per la voce di molti latitanti condannati in Italia in via definitiva per delitti commessi dopo la liberazione e non riconducibili alla naturale durezza della guerra partigiana.

Come tutti gli uomini che hanno combattuto il comunismo a viso aperto e pagando di persona, Havel fu poi considerato un uomo «di destra», sia pure moderata, secondo lo schema tolemaico che misura la natura di destra o di sinistra di un essere umano in politica dai centimetri che lo separano o lo avvicinano alle posizioni comuniste. Come tutti coloro che hanno vissuto quella storia, considerava il comunismo un unico crimine contro l'umanità e dunque Vaclav Havel era eticamente anticomunista e per questo marchiato come uomo di destra.

In realtà non temeva più il comunismo, ma la menzogna e il conformismo come residuo tossico del post comunismo: facile profeta di questa infelicità che oggi ha fatto dell'ipocrisia e dell'amnesia le caratteristiche morali del nuovo millennio.

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