Afghanistan addio, per Obama la missione è finita

Afghanistan addio. La guerra di Obama è già finita. Scordatevi le manfrine sulla guerra «necessaria» contrapposta alla «sbagliata» guerra irachena «scelta» da George W Bush. Era roba da campagna elettorale ed inizio mandato. Ora anche quella promessa è pronta per l’archivio. Il presidente lo ha spiegato ufficialmente nel discorso della scorsa notte. Un discorso in cui ha raccontato agli americani di esser pronto a riportare a casa 10 mila soldati entro l’anno e altri 33mila entro l’estate 2012. Un dietrofront capace di compromettere qualsiasi strategia e mandar su tutte le furie David Petraeus, il generale - comandante in capo delle forze Nato in Afghanistan - pronto a rinunciare, al massimo, a 5/10mila soldati non combattenti. Ma Obama non ha scelta. La promessa di rilanciare l’economia è fallita prima delle altre. Il debito pubblico supera i 14 trilioni di dollari, il deficit è a quota 1300 miliardi, la disoccupazione oltre il 9 per cento. Con questi numeri spendere 120 miliardi di dollari all’anno per restare in Afghanistan è pura utopia. E di questo passo il presidente «buono» rischia di diventare più impopolare di Nixon ai tempi del Vietnam. I primi a farglielo capire sono, lunedì scorso, i sindaci degli Stati Uniti riuniti a Baltimora per la conferenza annuale. Il loro primo atto è una risoluzione senza precedenti. Una risoluzione dedicata - per la prima volta dai tempi del Vietnam appunto - ad un tema di politica estera. Quella risoluzione chiede un immediato passo indietro da Afghanistan ed Iraq e il trasferimento all’economia nazionale delle centinaia miliardi di dollari spesi per la ricostruzione dei due paesi. A buttar benzina sul fuoco del malcontento acceso dai sindaci contribuisce Joe Manchin, un senatore della West Virginia democratico quanto Obama. «In coscienza non possiamo più permetterci di tagliar servizi, innalzare le tasse e far decollare il debito per finanziare la ricostruzione in Afghanistan. La domanda a cui il presidente deve rispondere è molto semplice cosa vogliamo ricostruire l’America o l’Afghanistan? Allo stato attuale far entrambe le cose è impossibile». La risoluzione dei sindaci e il discorso di Joe Manchin diventano una spada di Damocle sollevata sul capo del presidente proprio alla vigilia del cruciale discorso afghano di ieri sera. Comunque si giri Obama non può fingere di non vedere la lama dei conti sospesa sulla propria testa. Una lama che minaccia di trafiggerlo ancor prima dell’appuntamento del 2012 per la rielezione. Dunque l’unica via d’uscita è una fuga onorevole. Ma raccontarlo è più semplice che farlo. Certo il ritiro di 30 mila uomini nell’arco di 18 mesi, a partire dal luglio 2011, era già stato vagheggiato nel 2009. Obama l’aveva ipotizzato subito dopo l’invio dei 30mila uomini di rinforzo considerati indispensabili per emulare la «surge» irachena messa a punto in Iraq dal Petraeus e dal suo predecessore Bush. Ma allora Obama preferiva non ascoltare chi spiegava che il «surge», la rimonta afghana, sarebbe stata molto più lenta e faticosa di quella irachena. Ora quella sottovalutazione di tempi e priorità decisa nel nome della politica rischia di rivelarsi fatale. Un ritiro a metà dell’opera sull’onda della pressione economica e della politica interna minaccia di rivelarsi nefasto. I soldi risparmiati grazie ad un frettoloso abbandono rischiano, come cerca di fargli capire il generale David Petraeus, di azzerare i pochi successi conseguiti in questi due anni. E di rendere estremamente più costosa in termini di vite umane la permanenza dei 70mila soldati americani e 30mila della Nato lasciati nella trincea afghana. Ma Obama non ha più tempo.

Il novembre 2012 è ad un passo e così, la scorsa notte, il presidente «buono» ha barattato, probabilmente, la propria salvezza con la sconfitta della nazione. Ma in fondo glielo chiedeva il paese. E lui volentieri lo ha ascoltato.

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