Yogi Berra, il Trapattoni d’America

La storia del profeta di Cusano Milanino è simile a quella di un altro nipote della provincia lombarda, un grande giocatore di baseball diventato famosissimo più per le sue battute sgrammaticate che per le straordinarie imprese sul diamante

Yogi Berra, il Trapattoni d’America

Fare paralleli tra sport talmente diversi come il calcio ed il baseball è decisamente azzardato ma, ogni tanto, le similarità sono troppo evidenti per essere ignorate. Come nel gioco più amato al mondo, anche gli appassionati del “passatempo nazionale” non fanno che paragonare le carriere dei campioni del passato con le stelle di oggi Capita anche in questo sport che alcuni grandi stelle riescano ad avere successo anche in panchina. Non è invece normale che siano i campionissimi a riuscire a ripetersi anche da allenatori. Riuscirci, poi, diventando non solo popolari ma facendosi voler bene praticamente da tutti è quasi impossibile. Eppure, ogni tanto, capita. Pensate a Giovanni Trapattoni da Cusano Milanino: grande giocatore con la maglia del Milan e dell’Italia, passato poi sulla panchina per vincere tutto quel che c’è da vincere con la Juventus.

A renderlo però universalmente amato furono le sue battute storiche, dal famoso “non dire gatto se non l’hai nel sacco” alla fantastica conferenza stampa in un tedesco maccheronico ai tempi del Bayern. Per quanto davvero unico, c’è un altro personaggio che, dall’altra parte dell’Atlantico è riuscito a fare un percorso simile a quello del Trap ma, se possibile, ancora più in grande. Se il Trap era un buon giocatore, questo ragazzo nato a St. Louis è considerato da molti uno dei più grandi di tutti i tempi. Se il talento lombardo vinse molto da giocatore, certo non riuscì ad arrivare ai 10 anelli collezionati dal campione del Missouri. Una cosa li accomuna: le loro battute sono entrate a far parte della cultura popolare, rendendoli immortali. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta nel New Jersey per raccontarvi la storia di Yogi Berra, figlio di immigrati italiani che è riuscito a diventare famosissimo sia da giocatore che da allenatore, grazie anche ad una serie di massime davvero memorabili ed un cartone animato famoso in tutto il mondo.

Un campione "normale"

Sebbene tutti in America lo conoscano con il suo famoso soprannome, quando nacque nel quartiere italo-americano di St. Louis il 12 maggio 1925, questo figlio di italiani arrivati da poco nell’ultima grande ondata di emigrazione era stato battezzato con un nome poco comune da quelle parti: Lorenzo Pietro Berra. Il padre Pietro era originario di Malvaglio, frazione di Robecchetto con Induno, in provincia di Milano, trasferendosi in America il 18 ottobre 1909 a 23 anni. Dopo qualche anno sarebbe stato raggiunto dalla fidanzata Paolina Longoni, per mettere su casa nel quartiere chiamato The Hill, dove risiedeva buona parte della comunità italiana. Il padre lavorava in una fabbrica di mattoni e certo non si sarebbe mai immaginato che Lorenzo avrebbe giocato con superstar del calibro di Joe DiMaggio o Mickey Mantle, diventando una presenza familiare in tutti gli Stati Uniti.

Yogi Berra Mets 1969 WIkimedia

Sebbene la famiglia Berra non navigasse nell’oro, l’infanzia di Lorenzo fu felice e l’ha ricordata spesso nella sua autobiografia, pubblicata qualche anno fa. Dagli anni passati alla high school, la South Side Catholic, a quando il padre tornava a casa alle 5 del pomeriggio ed i figli mollavano tutto per portargli una lattina di birra. Non si scherzava con Pietro Berra, era un padre molto severo, sapeva che per farsi strada nel nuovo mondo sarebbe stato necessario lavorare duramente. Quando non vendeva giornali all’angolo della strada per fare qualche soldo, Lorenzo amava lo sport. Non era molto alto o molto atletico ma aveva una grande passione. Da buon italiano, il calcio era il sogno ma agli americani non piaceva. Per questo iniziò a giocare con loro a baseball, dovunque fosse possibile, dalla mattina alla sera, senza sosta.

Yogi Berra Mickey Mantle 1953 Wikimedia

Lorenzo non era l’atleta più dotato in famiglia, suo fratello Antonio era molto più bravo ed avrebbero potuto farcela nello sport professionistico. Pietro Berra, però, non ne voleva sapere: “Andate a lavorare, non perdete tempo col baseball, portate lo stipendio a casa”. A questo punto furono loro a chiedere al padre di lasciar seguire il suo sogno almeno al piccolo di casa. Lorenzo, qualche anno dopo, lo prendeva in giro, dicendogli che se avesse lasciato provare anche i suoi fratelli sarebbe diventato milionario. La risposta di papà Pietro? “Prenditela con tua madre”. Alla fine, anche se a mamma Paolina non andava a genio, Lorenzo si gettò anima e corpo nello sport, lasciando la high school per entrare nelle giovanili dei New York Yankees. Non lo sapevano ma sarebbe stata la scommessa migliore della famiglia Berra.

Dalla guerra alla gloria

Il cammino di Lorenzo verso la gloria non fu né lineare né semplice. Dopo una stagione passata con gli Yankees, si arruolò nella Marina per combattere nella Seconda Guerra Mondiale. Al contrario di molti altri atleti, che continuavano a giocare anche in divisa, Berra andò in prima linea, combattendo anche nell’invasione della Normandia, mettendo più volte a rischio la sua vita. A soli 19 anni il mitragliere di una nave supporto si ricoprì di gloria, finendo con una Purple Heart, la medaglia per chi è ferito in servizio, due medaglie individuali e una citazione per la sua unità, una carriera davvero inusuale per un atleta. Tornato alla vita civile riprese a giocare a baseball, passando nella prima squadra verso la fine della stagione nel 1946. Dopo tre anni divenne il catcher titolare, iniziando a diventare decisivo anche sul piatto di battuta, mettendo una media di 20 fuoricampo dal 1949 al 1958, conquistando il titolo di MVP dell’American League per tre volte, fatto più unico che raro per un catcher. La sua carriera a New York è senza uguali: dieci World Series su quattordici finali giocate, mettendo una serie di record durati decenni, dal numero di fuoricampo per un catcher al numero di partite senza un singolo errore.

Yogi Berra Yankees 2003 Wikimedia

Difficile per un non iniziato capire l’impatto di Yogi Berra sullo sport, ma possiamo ricordare alcuni aspetti davvero unici della sua carriera. Nonostante si fosse dovuto misurare con giganti dello sport come DiMaggio e Mantle, nelle 18 stagioni passate agli Yankees ha vinto dieci anelli, riuscendo anche a guadagnarsene tre da allenatore. Nessuno è mai riuscito ad arrivare a 21 finali da giocatore e allenatore, un record che probabilmente non verrà mai battuto. Nessun catcher è stato chiamato nell’All Star team più volte di lui e un solo altro catcher ha vinto tre titoli di MVP. Nel suo periodo migliore, dal 1950 al 1956, Berra era davvero inarrestabile, giocando una media di 144 partite a stagione con medie mostruose, mai finendo sotto il quarto posto nel voto per il migliore dell’anno. Si diceva che era impossibile evitare che ti colpisse almeno una palla tutte le volte che andava al piatto, ma allo stesso tempo era un maestro nel fregare corridori che provavano a rubargli una base. Il 24 giugno 1962, Berra, alla rispettabile età di 37 anni, giocò tutti i 22 innings della partita tra Yankees e Tigers, una maratona durata oltre sette ore. Non sarà stato un grandissimo atleta ma in quanto a resistenza, pochi erano migliori del ragazzo del Missouri.

Yogi Berra Derek Jeter 2010

Un allenatore sui generis

Dopo una carriera come poche altre nella storia del baseball, Yogi Berra passò ad allenare i suoi Yankees, vincendo il titolo della American League ma venendo sconfitto nelle World Series. Dopo un licenziamento a sorpresa, fece una mossa altrettanto inaspettata, passando ai cugini dei Mets, dove rimase sette anni come allenatore e tre come team manager. Abbastanza per garantirgli un ritorno trionfale agli Yankees, dove rimase fino al 1985. Non una carriera paragonabile a quella del suo omologo milanese, ma tre World Series non sono davvero niente male. Dopo essere entrato nella Hall of Fame nel 1972 ed avere il suo museo personale alla Montclair State University nel 1998 il suo posto nel cuore degli americani era ormai consolidato. A renderlo, però, universale è stato il fatto che non fosse stato un campione come tanti altri, sia per il suo umorismo che per essere amato praticamente da tutti, non importa per quale squadra tifassero.

La cosa veramente unica furono le sue mille battute famose, tanto da meritarsi un soprannome specifico, “yogi-isms”. Cosa li rendeva tanto memorabili? Il fatto che fossero divertenti, spesso in conflitto con le regole della lingua inglese, un misto tra banalità assolute e pillole di saggezza, proprio come succedeva per le perle del vate di Cusano Milanino. Il figlio di un immigrato italiano non si prendeva mai troppo sul serio, tanto da dichiarare una volta “I really didn’t say everything I said”, qualcosa tipo ‘non ho mai detto davvero quello che ho detto', una specie di nonsense ma profondamente onesto. Una cosa è certa: pochi atleti o personaggi sono stati in grado di entrare nella cultura popolare come la stella degli Yankees.

yogi berra Yankees 2008

Impossibile elencare tutti i vari yogi-isms ma ce ne sono alcuni veramente incredibili. Ci sono alcuni strafalcioni più o meno memorabili, come quando disse che “nel baseball il 90% è una questione mentale. L’altra metà è una questione di preparazione” o quando, nel corso di una conferenza stampa, disse “we made too many wrong mistakes”, qualcosa tipo “abbiamo fatto troppi errori sbagliati”. Vista la sua lunga carriera, chiaramente molte delle sue frasi famose sono legate al baseball, come quando disse che “tutti i lanciatori o sono dei bugiardi o dei piagnoni” o quando dichiarò che non poteva “colpire la pallina e pensare allo stesso tempo”. Allo stesso tempo Yogi Berra parlava un po’ di tutto e si divertiva a prendere in giro la stampa, come quando, di fronte ad una domanda rognosa, disse “vorrei avere una risposta a questa domanda, perché sono davvero stanco di rispondere”.

Yogi Berra Yankees 2008 2

A renderlo però eterno furono certe dichiarazioni che sembravano nascondere una saggezza profonda nella loro banalità: cosa pensare di una frase come “the future ain’t what it used to be”, qualcosa tipo “il futuro non è più quello di una volta”? Quando gli chiesero dell’inflazione negli anni ‘70, rispose con una frase lapidaria, entrata fermamente nel lessico americano: “a nickel ain’t worth a dime anymore”, qualcosa tipo i soldi non valgono più come una volta? Quando gli chiesero di un ristorante nella sua città natale, rispose “no one goes there anymore. It’s too crowded”, ovvero “nessuno ci va più, è troppo affollato”. Parlava davvero del ristorante o di qualcos’altro? Chi lo sa? Yogi piaceva a tutti perché sapeva prendersi in giro da solo, come quando disse “so di essere brutto ma cosa importa? Non ho visto nessuno colpire una pallina con la faccia”. Chissà quando nascerà un altro campione come lui…

La filosofia di Yogi

Il vero segreto del figlio di un immigrato italiano fu di rimanere coi piedi per terra, senza credersi migliore degli altri, ridendo di tutto e tutti. Nelle sue battute la gente leggeva qualcosa di più profondo, di più importante, che aveva imparato da suo padre, il muratore che credeva fermamente nell’etica del lavoro lombarda. Non era alto, non era forte, era pure abbastanza brutto, tanto da essere definito dalla popolare rivista Colliersun corpo che potrebbe piacere solo ad un antropologo, da Neanderthal” ma alla gente piaceva davvero. Sì, non aveva studiato molto, spesso e volentieri faceva errori marchiani ma raccontava un mondo diverso, una saggezza nata molto lontano dalle praterie del Midwest, nella nostra bella Italia. Quello che l’Economist ebbe a definire “il pazzo più saggio degli ultimi 50 anni”, aveva tante lezioni da dare a chi volesse starlo a sentire, principi importanti soprattutto nella vita di tutti i giorni.

Yogi Berra Michelle Obama Jill Biden World Series 2009

Le sue frasi più famose possono essere lette come massime di vita, pillole di una filosofia molto pratica che risuonava profondamente con l’anima profonda dell’americano medio. Quando diceva “it ain’t over till it’s over”, in realtà voleva dire a tutti di non mollare mai, anche quando tutto sembra perso, quando non riesci a vedere una via d’uscita. Quando affermava “quando arrivi ad un bivio, prendilo”, non stava parlando di baseball o strategia di gioco, ma di non aver paura del rischio, di avere coraggio ed usare questi momenti come opportunità di crescita. Una delle sue massime più famose, “It’s like déjà vu all over again”, è un nonsense ma sottintende una lezione importante per tutti: se continui a fare il solito errore, magari è meglio se ti fai un esame di coscienza. Anche quando massacrava la lingua di Shakespeare, confondendo “grain” con “grin”, nell’espressione “take it with a grain of salt”, il risultato era allo stesso tempo esilarante e profondo: invece di prendere tutto come un’offesa personale, sorridi di fronte alle avversità.

Yogi Berra George W Bush Wikimedia

Lorenzo Berra riuscì a diventare lo zio simpatico, allegro, bonario, che ogni tanto diceva degli strafalcioni ma andava ascoltato sempre con attenzione, per non perdere alcune vere e proprie perle di saggezza. Parlando del grande Sandy Koufax, ebbe a dire “capisco come abbia vinto 25 partite. Quello che non capisco è come ne abbia perse 5”. Una frase senza senso, buttata lì per caso? Un errore? No, una lezione profonda. Magari ha vinto 25 partite perché prima ne ha perse cinque. Non prendere mai un dato come se fosse oro colato, le lezioni importanti talvolta le impari più quando perdi di quando vinci. Parlando del segreto per fare un fuoricampo, disse che “non bisogna metterci tanta forza; se colpisci al momento giusto la pallina andrà lontano. Il tempismo è tutto”, lezione che vale sia nel baseball che nella vita. Yogi piaceva perché era onesto fino in fondo, genuino: “se non ce l’avessi fatta nel baseball, non avrei avuto successo altrove. Non mi piaceva lavorare”. Lo zio Yogi si prendeva in giro ma allo stesso tempo voleva dirti che quando ci metti passione, il lavoro non ti pesa nemmeno. La massima che mi è rimasta più impressa è quella, forse, più profonda: “If the world were perfect, it wouldn’t be”, se il mondo fosse perfetto, non funzionerebbe. Non male per il figlio di un muratore milanese...

Yogi come l'orso? Esattamente

Il testamento più grande della immensa popolarità di questo campione del baseball è forse quello che gli aveva fatto perdere il suo proverbiale buon umore. Il soprannome che rese Lorenzo Berra famoso in tutta America fu infatti usato per un cartone animato che era un po’ come lui: non particolarmente bello ma simpatico e intelligente. La relazione tra Yogi il campione e l’orso Yogi è talmente profonda che, nel dare la notizia della sua morte, l’Associated Press li confuse. La storia di come l’orso che faceva impazzire i ranger del parco di Jellystone prese in prestito il nome di uno dei campioni più popolari di sempre è davvero curiosa. L’orso Yogi fece il debutto sugli schermi americani nel 1958, parte del programma che aveva come protagonista l’altrettanto famoso Braccobaldo Bau e fu un successo immediato. Anche se la voce assomigliava a quella di una stella di una sit-com popolarissima, The Honeymooners, fu il nome ad attirare l’attenzione di tutti. Lorenzo Berra da St. Louis non la prese per niente bene e fece causa alla Hanna-Barbera per diffamazione.

Yogi Bear Wikimedia

La famosa casa di produzione giurò e spergiurò che non c’era nessun collegamento tra l’orso e il famoso giocatore e, alla fine, non se ne fece di niente, anche quando il cartone animato divenne ben più popolare dell’ex campione. Qualche anno dopo fu un esperto di Hollywood, Walter Brasch, ad ammettere quello che tutti nell’ambiente sapevano fin troppo bene: “Coincidenza? Nessuno nel settore ci crede davvero. Come disse un produttore famoso: ‘se non ci fosse stato Yogi Berra, dubito fortemente che l’orso si sarebbe chiamato Yogi. Coincidenze del genere non esistono’. Era troppo famoso e simpatico per non prendergli a prestito il nome”.

Jellystone Park Wikimedia

Già, ma come è successo che Lorenzo Berra si ritrovò un soprannome tanto particolare? La storia risale agli anni ‘40, quando giocava in una squadra giovanile della sua St. Louis. Quando stava ad aspettare il suo turno prima di presentarsi sul piatto per battere, Lorenzo aveva il vizio di stare seduto con le gambe incrociate. Un suo amico aveva appena visto un documentario sull’India e notò come gli yogi indiani meditassero nella stessa posizione. Ecco perché iniziò a chiamarlo Yogi, uno dei soprannomi più famosi di tutti i tempi. Papà e mamma Berra non ne erano contenti ma, in fondo, è andata bene così. Chissà se sarebbe diventato altrettanto famoso se l’avessero chiamato solo Lorenzo.

Un grande italo-americano

Quando passò a miglior vita, nel 2015, alla rispettabilissima età di 90 anni, furono in molti a cercare di spiegare il perché fosse diventato una presenza così familiare nelle case degli americani. Una delle elegie migliori fu quella che gli dedicò la nipote, giornalista che collabora con la stessa MLB, la lega professionistica del baseball. Invece di parlare del campione, dell’allenatore degli Yankees, ci racconta il lato umano, quando giocava coi nipoti nel giardino, quando bruciava gli hot dog sul barbecue, quando le insegnava a giocare a carte. Per la famiglia Berra sarebbe stato un modello anche se non avesse mai giocato a baseball. Era una persona perbene, umile, orgoglioso senza essere presuntuoso, senza mai montarsi la testa. Trattava tutti allo stesso modo, dal Presidente degli Stati Uniti al cameriere del suo ristorante preferito. La sua storia era la prova provata che il sogno americano è vivo e vegeto: un figlio di immigranti italiani che tutti dicevano fosse troppo basso, troppo sgraziato, troppo brutto che ce l’aveva fatta, diventando uno tra i campioni più grandi dello sport americano per eccellenza.

Yogi Berra 2003 Fotogramma 2

La nipote si schermisce quando dice, tra il serio e il faceto, che il nonno, Gesù Cristo e Shakespeare sono i tre personaggi più citati in assoluto ma che “gli altri due stanno perdendo terreno”. Lorenzo Berra, però, era più grande dei suoi record, dei suoi dieci titoli, di quello che aveva fatto sul diamante. Il suo più grande successo è stato di aver passato 90 anni in questa valle di lacrime senza che nessuno avesse una sola cosa negativa da dire su di lui. La perfezione non è di questo mondo, ma non si aspettava che i suoi nipoti fossero perfetti. Voleva che facessero del loro meglio, che trattassero tutti, non importa se fossero ricchi o poveri, con il massimo rispetto, che facessero la cosa giusta anche quando non gli conviene, che provassero a dare il 100% senza pensare di essere migliori degli altri.

Yogi Berra Way Montclair Wikimedia

A sentire lei, la vera eredità di Lorenzo Berra, detto Yogi, sono stati i milioni di persone che, in un modo o nell’altro, sono stati toccati dal suo esempio o dalle sue parole. La cosa che mi fa riflettere è come la sua vicenda umana davvero straordinaria sia praticamente sconosciuta alle nostre latitudini.

La storia di questo lombardo d’America, che è diventato grande mettendo in pratica ogni giorno la saggezza profonda di questa terra, meriterebbe di essere studiata anche da noi. Magari le sue battute fulminanti non funzionano in italiano ma avrebbe davvero tanto da insegnare anche qui. Comunque una cosa è certa: storie come la sua succedono solo in America.

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