Antonio Albanese, al suo quinto film anche da regista, ha realizzato il suo capolavoro. Cento domeniche è un film asciutto, essenziale, sobrio, preciso e feroce. Ma, soprattutto, è un film perbene, come il suo protagonista, in un'epoca in cui questo aggettivo non sembra essere necessariamente un valore. C'è una certa immedesimazione tra l'artista, Albanese, e il personaggio che interpreta e che, non a caso, si chiama Antonio. È un ex operaio di un cantiere nautico che conduce una vita mite e tranquilla nei luoghi, Olginate ad esempio, dove anche il regista e attore è nato e cresciuto. In questa provincia, che sembra ancora mantenere un certo grado di umanità (lui si prende cura della mamma anziana), il tessuto industriale inizia però a mostrare segni di cedimento. Così, quando arriverà finalmente l'evento che Antonio aspettava da una vita il matrimonio dell'amata figlia al momento di ritirare i soldi in banca, per un ricevimento consono, iniziano i problemi.
A questo punto Cento domeniche (il riferimento è ai giorni festivi che occorrono a un operaio per potersi costruire la casa nel «tempo libero») prende una piega amara e realistica, con il personaggio di Antonio (Albanese ha fatto il metalmeccanico per sei anni) costretto a prendere in mano la situazione kafkiana in cui si trova. Il regista dimostra una forte personalità autoriale, semplice, limpida e cristallina anche nella messa in scena, per la quale si avvale di un'interessante scelta di interpreti in genere colpevolmente poco utilizzati dal cinema.
Penso a Sandra Ceccarelli nel ruolo dell'ex moglie, alla strepitosa e commovente Giulia Lazzarini in quello della madre anziana in un'interpretazione piena di sussurri, alla «figlia» Liliana Bottone. Per (non) finire con caratteristi come Bebo Storti, Maurizio Donadoni e Elio De Capitani, che rendono perfettamente l'antropologia di quelle geografie.
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