Christmas Island, l'isola del Natale, è sperduta nel mezzo dell'oceano Indiano, di cui molti semplicemente ignorano l'esistenza. Eppure il governo di Canberra ci ha speso 370 milioni di dollari, e non perché sia ricca di materie prime o di chissà quale sostanza. Semplicemente, l'obiettivo del governo australiano era di costruire un centro per «rifugiati» da 1.200 persone. Un centro che quest'anno hanno già visitato almeno 2.000 persone e che è quasi pieno di migranti che hanno provato a raggiungere l'Australia in barca. Quasi pieno e non sovraccarico soltanto perché il premier Kevin Rudd ha telefonato personalmente al presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, per intercettare una nave con 260 cingalesi che puntava verso le sue coste.
Christmas Island si chiama così perché un marinaio, nel 1643, la scoprì proprio nel giorno della nascita di Gesù, a poco meno di 500 km dall'Indonesia, ma quasi 2.000 dalla terraferma australiana. E qui, in un'isola in cui la popolazione non supera le 600 persone e che John Howard, il predecessore di Rudd, ha escluso dalla zona di immigrazione australiana, il governo dell'ex colonia inglese manda chi arriva via mare. Perché l'isola del Natale è un posto che rappresenta le paure degli australiani: o, almeno, la paura dei boat people, delle persone che dalle coste dell'Asia salpano in barca per raggiungere Canberra e Sydney.
«Non mi scuso in nessun modo per aver adottato una linea dura sull'immigrazione», ha detto fra i denti Rudd. Lui, laburista, che da premier in pectore si era invece scusato con gli aborigeni. Lui, che pure inizialmente era stato lodato dai sostenitori dei rifugiati per aver ammorbidito le politiche di Howard e che non avrebbe voluto utilizzare il centro di Christmas Island, recintato da una cortina elettrificata alta oltre quattro metri. «Hanno fatto questa struttura qui, in mezzo alla giungla - ha raccontato al New York Times Charlene Thompson, una social worker che assiste i richiedenti asilo -. È una prigione, una prigione di alta sicurezza e mi pare che chi sta qui e cerca asilo politico sia trattato come un criminale», ha accusato paragonandola a Port Arthur.
Eppure, quelli che arrivano su queste carrette del mare sono appena il 10 per cento di tutte le persone che chiedono asilo all'Australia, stando ai dati sull'immigrazione. Il restante 90, semplicemente, sbarca in aereo. Nonostante ciò «c'è molta preoccupazione per gli arrivi di persone dal Nord, con le barche», ha spiegato Bernadette McGrath, direttore del Servizio per la riabilitazione e assistenza dei superstiti alla tortura e ai traumi, che per sei mesi ha indagato sul trattamento dei rifugiati. Un privilegio, quello di indagare, che è concesso a pochi: la distanza dalla costa e la scarsità di collegamenti scoraggiano i più e oltre a questo il governo ha stabilito che i giornalisti non possono visitare il centro, regola che è stata rotta solo due volte. Chi invece lo visita senza alcun dubbio sono i richiedenti asilo: e se anche fossero ormai giunti in vista dei porti delle città australiane, poco importa. In ogni caso sarebbero costretti a tornare indietro e a passare per Christmas Island, dove i loro casi vengono vagliati in un periodo che generalmente varia dai tre ai quattro mesi.
E anche se, secondo un recente rapporto della Commissione australiana per i diritti umani, un'organizzazione governativa, il centro «sembra e si comporta come una prigione», con misure di sicurezza «eccessive» e una struttura «inadatta per l'accoglienza dei richiedenti asilo», visto che dentro al cortile principale tutto è chiuso da recinzioni separate e con «strutture simili a celle», il dipartimento per l'Immigrazione ha respinto le raccomandazioni che lo invitavano a smettere di usare Christmas Island, perché «è una componente essenziale di un forte controllo di frontiera».
Di cui sembra sentire il bisogno anche l'Australia, pur circondata da migliaia di chilometri di mare.
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