A Bagdad è strage senza fine: fallita la politica Usa del ritiro

Una serie di attentati devasta la capitale irachena a pochi giorni dall’addio dei soldati americani. COMMENTO: Una guerra è finita, ma ora ce n'è un'altra / Dan Segre

A Bagdad è strage senza fine:  fallita la politica Usa del ritiro

Il Cairo - "Barack Obama regalerà l’Irak agli sciacalli". Il primo a dirlo era stato, un anno fa, il vecchio Tareq Aziz, l’ex vice primo ministro cristiano di Saddam Hussein condannato a morte ed ancora in attesa del patibolo. A pochi giorni dal ritiro americano la grama previsione è realtà. Una realtà sanguinosa e straziante contrassegnata dall’esplosione di 15 fra autobombe e ordigni in 11 diversi quartieri di Bagdad. Il ritorno all’orrore inizia di buon mattino. Un’ambulanza s’avvicina ad un posto di blocco nel centralissimo quartiere Karrada.

Appena oltre si trovano un’agenzia anti corruzione del governo e un ospedale. Il guidatore s’affaccia, chiede ad un soldato di farlo passare, racconta di esser diretto al pronto soccorso. Un attimo dopo il palazzo dell’agenzia scompare in una nube di fuoco, fumo e polvere. Intorno si contano 25 cadaveri e almeno una sessantina di feriti. È solo l’inizio. Nell’arco di due ore si susseguono i boati di 9 autobombe e 6 ordigni.

Alla fine della giornata negli ospedali si conteranno oltre sessanta morti e centinaia di feriti, molti dei quali in condizioni disperate.
Più grave della mattanza è la devastante situazione che l’ha generata. Una situazione che minaccia di riaccendere lo scontro tra sunniti e sciiti, resuscitare Al Qaida e consegnare le province meridionali del paese al controllo delle milizie sciite filo iraniane. Dietro tanto sconquasso c’è - ancora una volta - la politica fallimentare dell’amministrazione Obama.

Sino a poco prima del ritiro molti generali americani e molti politici iracheni, primo fra tutti l’ex premier Iyad Allawi, scongiuravano la Casa Bianca d’avviare una trattativa con il premier iracheno Maliki per posticipare almeno di un anno il ritiro degli ultimi 50mila soldati americani. I segnali del disastro erano evidenti. In vista dell’annunciato addio statunitense il premier sciita Nouri al Maliki aveva iniziato una pericolosa marcia di avvicinamento verso Teheran. Il primo e più evidente sintomo del nuovo asse Bagdad Teheran era il ritorno delle milizie filo iraniane pronte ad esercitare il pieno controllo su gran parte dei territori meridionali. Nel triangolo sunnita la chiusura dei progetti di assistenza alle tribù sunnite aveva ridato fiato alle cellule di Al Qaida disintegrate e ridotte ai minimi termini a suo tempo dalle strategie anti terrorismo avviate dal generale Petraeus negli ultimi anni dell’era Bush.

Il pericolo più grave e palpabile era però la crescente intolleranza del premier Nouri Maliki nei confronti degli avversari politici. Un’intolleranza manifestatasi in tutta la sua evidenza martedì scorso quando, a sole 48 ore dal ritiro americano, ha ordinato l’arresto del vice presidente sunnita Tariq Al Hashemi accusandolo di aver guidato le squadre della morte sunnite. Al Hashemi si è salvato fuggendo nei territori curdi, ma quel tentativo d’arresto ha riaperto il baratro tra le due comunità. I primi ad approfittarne sono i capi della risorta Al Qaida pronti a tutto, come dimostrano le 15 bombe di ieri, pur di trascinare la nazione allo scontro settario.

I primi a trar vantaggio dalla nuova discesa all’inferno sono però gli iraniani. Abbandonando l’Irak Obama ha spezzato l’accerchiamento che minacciava di strangolare Teheran regalandole il controllo delle province meridionali del paese e dei giacimenti di petrolio.

Pur di appagare un elettorato democratico contrario a qualsiasi prolungamento dell’avventura irachena e pur di mantenere la poltrona presidenziale Obama ha insomma cinicamente buttato alle ortiche non solo il sacrificio di 5000 caduti americani, ma anche la fiducia delle tribù sunnite e i pochi benefici strategici garantiti dalla presenza in Irak. Grazie al quel cinismo forse riconquisterà la poltrona, ma si ritroverà alla guida di un’America molto più sola e molto più debole.

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