La testa è al decreto sviluppo, alle pressioni del Quirinale affinché nel provvedimento ci sia qualche misura concreta per la crescita e al prevedibile braccio di ferro con un Giulio Tremonti che dopo la querelle su Bankitalia è più rigido che mai. E alla questione Bce, visto che domani a Bruxelles ci sarà l’atteso - e per alcuni versi temuto - faccia a faccia con un Nicolas Sarkozy per nulla contento del fatto che Lorenzo Bini Smaghi ancora non abbia fatto quel passo indietro dal board dell’Eurotower che libererebbe un posto per la Francia, a corto di rappresentanti ai vertici della Banca centrale europea dopo il passaggio di consegne tra Jean Claude Trichet e Mario Draghi. Sono questi i due nodi su cui si concentra il Cavaliere, anche se su nessuno dei due fronti pare che la giornata di ieri abbia davvero portato consiglio. Non certo sul caso Bce, dove l’impasse sembra totale anche perché Bini Smaghi ha fatto sapere di aver intenzione di prendersi ancora qualche settimana prima di decidere del suo futuro. E probabilmente neanche sul decreto sviluppo, perché quando ieri sera il ministro Paolo Romani ha varcato l’ingresso di Palazzo Grazioli per un faccia a faccia con il premier sull’argomento era comunque ben consapevole del fatto che Tremonti è pronto a fare ogni resistenza possibile pur di ottenere quel provvedimento «a costo» zero di cui parla da tempo. Quello «sciopero bianco» che il ministro dell’Economia aveva minacciato a Berlusconi dopo l’esclusione di Vittorio Grilli nella corsa per la poltrona di Bankitalia.
Ma ieri per il Cavaliere è stato anche il giorno del congresso del Movimento di responsabilità nazionale di Domenico Scilipoti. Durante il quale il premier torna ancora una volta a raccontare la storia della sua discesa in politica. «Ho provato a mettere d’accordo tutti, ma non ci sono riuscito e così ho deciso di scendere in campo per salvare il Paese dai comunisti». È il solito amarcord, compreso l’accenno a «quei molti che mi vogliono bene» che l’avevano messo in guardia dall’entrare in politica. «Avevano ragione», dice Berlusconi. Perché «in questi anni non mi hanno fatto mancare nulla». E via ad elencare: «Aggressioni politiche, aggressioni giudiziarie - di cui sono il recordman - e aggressioni fisiche perché se quel Duomo di marmo invece che sulla guancia l’avessi preso in testa ora sarei sotto terra». Ma anche «aggressioni patrimoniali» visto che «ho dovuto consegnare 500 milioni di euro al signore De Benedetti, la tessera numero 1 del Pd».
Poi il giudizio su Tangentopoli che «è stato un golpe giudiziario» e l’elogio a Giorgio Napolitano: «Quando c’è un capo dello Stato intelligente e puntuale come quello che abbiamo oggi, l’intervento è sempre qualcosa di molto preciso». Berlusconi però guarda avanti. Si dice certo di arrivare al 2013 («semplicemente per un fatto di personale autorevolezza») e rilancia le riforme: «A partire dalla giustizia, cambiando la struttura dell’attuale per ottenere che i giudici facciano i giudici e non utilizzino la giustizia come arma politica».
Tocca alla riforma elettorale: «Alla luce del milione e duecentomila cittadini che hanno firmato il referendum dobbiamo introdurre una variante nella legge che consente di scegliere i candidati».
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