Boss in incognito Una (triste) farsa nell'Italia in crisi

Boss in incognito Una (triste) farsa nell'Italia in crisi

Viene da chiedersi come mai le edizioni italiane di fortunati programmi televisivi stranieri risultino troppo spesso delle «boiate pazzesche». Nel caso di Undercover Boss, ovvero Boss in incognito, c'è veramente da rimpiangere quel format diventato un piccolo cult nella storia della tv recente, lanciato nel 2009 in Gran Bretagna e ripreso l'anno dopo negli Stati Uniti. Per la Rai siamo ormai alla quarta edizione, e dopo le conduzioni di Costantino Della Gherardesca e Flavio Insinna, tocca ora a Nicola Savino recitare la voce fuori campo di una improbabile docu-fiction patetica e banale. Andrebbe fatta una riflessione, nell'Italia di una lunga crisi, ancora non finita, che ha falcidiato imprese, aziende, realtà commerciali: il lavoro oggi è un privilegio, non è più il tempo in cui è assicurato a tutti, e chi ce l'ha deve difendere il famoso posto con i denti e con le unghie. Chiunque nel proprio campo, dal capo all'operaio, è tenuto a comportarsi correttamente e con spirito di competitività. Il resto sono chiacchiere.

La storia raccontata nella puntata del 24 gennaio scende nella provincia abruzzese di Teramo, al maglificio Gran Sasso, dove si producono tessuti di lusso. Un'azienda familiare, fondata nel 1962, che vanta 400 dipendenti per un fatturato di circa 44 milioni di euro l'anno ed esporta in tutto il mondo. Al vertice c'è ora Guido Di Stefano, cinquantenne separato con cinque figli. Truccato come un rocchettaro degli anni '70 la parrucca fa molto ridere - si presenta in incognito nella sua stessa fabbrica affinché alcuni operai e tecnici gli insegnino a lavorare. Uno stage che durerà una settimana, seguito dalle telecamere con la scusa di un finto reality «Cambio vita, cambio lavoro». E già il pretesto convince poco, perché nessuno è davvero se stesso quando viene ripreso. Invece di imparare a lavorare, lo strano ospite della Gran Sasso diventa il raccoglitore delle confessioni dei suoi tutor, in un trionfo di piccole storie quotidiane sempre uguali a se stesse, intrise di dolore, sofferenza e disagio. Persone dalla commozione facile, spinte a piangersi addosso (possibile non ci sia nessuno che viva serenamente?). Saranno vere? I dialoghi sono costruiti in maniera artefatta, teatrale, poco credibile. Possibile che a uno sconosciuto vengano rivelate confidenze così intime, su famiglie lontane, figli problematici, malattie sempre in agguato? E poi in orario di lavoro? Il vizio della tv piagnona e strappalacrime contagia ormai ogni strato di una società che non riesce più a vedere futuro e prospettive davanti a sé. Ne vien fuori, fosse veritiero, il ritratto di un'Italia stanca, poco motivata, ragione evidente della sua scarsa competitività. Il meccanismo dell'agnizione, lungo e noioso, accentua ulteriormente l'insopportabile patetismo. Anche il Boss piange, si commuove per qualsiasi menata, e quasi vergognandosi della sua posizione privilegiata, elargisce regali e compensi sproporzionati.

Ma quanto gli sarà costato questo scherzetto? Perdona ogni

difetto, sorvola su qualsiasi disservizio in nome di un vetusto socialismo umanitario tanto nobile quanto assai poco applicabile. A fare gli altruisti e gli ipersensibili davanti alla tv sono capaci tutti. E nella vita vera?

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