Addio botteghe storiche del centro, benvenuti megastore. La capitale dello shopping di lusso perde i pezzi, a vantaggio di catene straniere che ben poco hanno a che vedere con l'identità della città. Ma la crisi non guarda in faccia nessuno, e tantomeno risparmia i negozi simbolo del centro storico, quelli che nel dopoguerra hanno contribuito a ridare slancio all'economia e a far distinguere Milano per stile e alta qualità. L'ultimo della lunga serie di addii porta la firma di Tincati. La celebre boutique di abbigliamento maschile di piazzale Oberdan, fondata nel 1965 dal capostipite Pietro Tincati, ha abbassato le serrande la scorsa primavera. Per riaprire, in data non ben precisata, con un negozio di alta sartoria. Staremo a vedere, fatto sta che dallo scorso marzo la boutique ha smontato baracca e burattini, e chissà quando (e se) riaprirà. Non si hanno più notizie nemmeno di Gusella, altro storico marchio del centro milanese. Il tempio di scarpine e sandaletti per bambini inaugurato nel lontano 1929, ha infatti abbandonato le vetrine di Galleria San Babila per trasferirsi in altra sede, pur mantenendo i punti vendita più decentrati, e certamente con affitti meno costosi.
Qualche lacrima in più per Neglia. Dallo scorso gennaio, la lussuosa sartoria di corso Venezia 2 ha salutato per sempre la città che lo ospitava dal 1942, quando Giuseppe Neglia, abile sarto di Petralia Sottana, paesino nel cuore delle Madonie, scelse di trasferirsi nella capitale della moda con il figlio Vincenzo, specializzandosi negli abiti su misura. Nel 1961 Vincenzo Neglia apre in corso Venezia (ma al numero 8) il suo primo negozio. Lo chiude nel 2011, cinquant'anni dopo, a causa dei malori che hanno colpito prima lui, poi la moglie. Al suo posto, il blasonato colosso Luis Vuitton con un esercito di bodyguard all'ingresso, provvisoriamente accampato sotto la chiesa di San Babila in attesa di ristrutturare la sfarzosa sede di Montenapoleone che raddoppierà gli spazi e, spera, anche la clientela. A rischio chiusura anche Melegari e Costa, la storica pellicceria di Montenapoleone che già una volta, causa sfratto, era stata costretta a cambiare sede, per riaprire qualche caseggiato più in là. «Il proprietario vuole vendere il palazzo - racconta amareggiata la titolare, Elena Aimetti -. Siamo rimasti solo noi e Baldinini, gli altri inquilini si sono già trasferiti». A nulla sono valsi albi e targhe: «Siamo una bottega storica riconosciuta sia dal Comune che dalla Regione, ma finora nessuno si è speso per noi».
Addii in sequenza, dunque, e nessuna certezza per il futuro: «L'abbigliamento è stato uno dei settori maggiormente colpiti dalla crisi» commenta Renato Borghi, vicepresidente di ConfCommercio e presidente di FederModa. «Ai consumi deboli si aggiunge la difficoltà a ottenere il credito dalle banche: anche le aziende che sono accompagnate dalle garanzie al 50 per cento dei nostri consorzi fidi, faticano a ottenere prestiti» sottolinea Borghi. Poi c'è il problema degli affitti sempre crescenti «e alla scadenza addirittura triplicati». E quello del rapporto con i fornitori: «La vera truffa è che i listini siano sempre in aumento nonostante che la maggioranza delle aziende di produzione abbia delocalizzato». Insomma, producono all'estero ma non hanno diminuito i costi dei prodotti , a danno della distribuzione e dei consumatori. Altra questione: i mancati riassortimenti e soprattutto il rischio delle rimanenze, «che sarebbe giusto condividere con i fornitori», ipotizza il presidente di FederModa. «E se a questo aggiungiamo che la nostra pressione fiscale è tra le più alte d'Europa, il quadro si completa».
Con un'aggravante, però: il mancato ricambio generazionale. «I figli, spesso - osserva Borghi - non intendono fare lo stesso lavoro dei padri. Che comporta impegno, fatica e sacrifici». Ma questo è un altro capitolo...
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