Burleigh: "Attenti all’imperialismo dell’Islam"

Lo studioso britannico ripercorre la storia del terrorismo moderno e condanna la tolleranza multiculturale della sinistra liberal: "La preghiera in piazza Duomo è un’invasione egemonica dello spazio cristiano"

Burleigh: "Attenti all’imperialismo dell’Islam"

Londra - Il multiculturalismo? «È pernicioso: e la tolleranza multiculturale delle società europee aiuta i terroristi», afferma lo storico britannico Michael Burleigh nel suo recente libro Blood and rage: A Cultural history of terrorism (Harper Press, pagg. 546, sterline 25), sottolineando come «la tolleranza multiculturale sia una costruzione della sinistra liberal, un’ideologia che riduce l’identità individuale, che è sempre complessa, a un unico elemento: la condizione di vittima». Subito tradotto in molte lingue, ma curiosamente non ancora in italiano, Blood and rage (Sangue e rabbia) è un’indagine approfondita che ripercorre la storia del terrorismo moderno, le attività nazionaliste e separatiste, le campagne terroristiche che hanno accompagnato i processi di decolonizzazione, i movimenti ideologicamente ispirati come la banda Baader Meinhof o le Brigate rosse, la cui attività emerge effimera rispetto ai gruppi nazionalisti Eta e Ira a loro volta eclissati dalla violenza jihadista.

Un’indagine approfondita mirata a demistificare il liberal nonsense che ostacola la nostra capacità di affrontare efficacemente il problema del terrorismo che domina oggi la nostra vita. A dispetto dell’accoglienza prevedibilmente glaciale da parte degli accademici di sinistra, il libro è stato citato come testo esemplare da Lord Guthrie, capo delle forze armate britanniche, e raccomandato per i corsi di addestramento dal capo del controterrorismo Peter Clarke, mentre in America ha suscitato l’interesse del Pentagono.

Sarebbe comunque un errore etichettare Michael Burleigh come un semplice apologo della destra. Lui si definisce un «conservatore realista, scettico nei confronti dei “neocon”, ma indignato dall’antiamericanismo della sinistra europea». Avversario implacabile del politicamente corretto, lo storico ce l’ha soprattutto con quel relativismo annacquato che informa l’atteggiamento di molta parte della sinistra nei confronti del terrorismo. «Non ha senso parlare della guerra al terrorismo islamico come di uno scontro di civiltà - dice -: la distinzione è fra civiltà e caos. Non c’è mai giustificazione alla violenza». Così ci spiega nella sua casa di Londra a sud del Tamigi, di ritorno dal fortunato lancio in Spagna del suo saggio. Cinquant’anni o poco più, polemico e combattivo, è facile intuire la sua rabbia repressa dietro la pacata sicurezza dello storico di razza, forte di anni di ricerca e di docenza negli atenei più autorevoli, Oxford, Cardiff, Stanford, premiato in Inghilterra e in Germania per il suo importante studio sul Terzo Reich (tradotto in Italia da Rizzoli nel 2003).

E che cosa pensa dell’attuale invasione da parte degli arabi musulmani del sagrato del duomo di Milano, un’area cristiana e cattolica, in protesta alla situazione di Gaza?
«Ho seguito il tentativo di boicottaggio e le preghiere di massa a Milano. Mi fa piacere che i vostri sindacati hanno condannato il boicottaggio visto che gli ebrei italiani non possono certo essere ritenuti responsabili per le azioni del governo israeliano. In quanto alle preghiere di massa, le bandirei poiché costituiscono un’invasione dello spazio cattolico: un’ulteriore manifestazione insomma dell’“imperialismo territoriale” dell’Islam “suprematista”. Sono pienamente d’accordo con la posizione dura del sindaco di Milano, e certamente del governo del primo ministro Berlusconi nel suo insieme. Almeno capiscono che non abbiamo bisogno di una guerra civile nelle nostre strade. A Londra abbiamo folle musulmane isteriche con cartelli con scritte “Death to Juices” (sic) - non riescono neanche a scrivere correttamente “Jews” (ebrei) - che interrompono la vita della gente comune e assalgono negozi a Kensington. Nel frattempo, i musulmani “moderati” hanno minacciato il nostro governo che ci sarà ancora dell’altro terrorismo se i “Brits” non alterano la loro politica estera. Poiché il governo ha condannato la reazione “sproporzionata” di Israele non vedo cosa possano volere di più, forse un’alleanza con Hamas?».

Nel suo libro lei definisce il terrorismo una tattica e non una strategia. Una tattica qualche volta politicamente efficace?
«È una tattica nel senso che è un continuum di attività mirate a provocare indiscriminatamente vittime civili per sollecitare i governi a cambiare politica. Certamente fra i gruppi dei vari movimenti terroristici laici o etno-nazionalisti e i vari tipi di terrorismo marxista, quelli che hanno una lunga storia, come l’Ira e l’Eta, possono vantare un qualche successo. Ma dagli anni Sessanta il baricentro si è spostato sulla religione, e questo ha cambiato le cose».

Lei tratteggia un ritratto del terrorista islamico calcato soprattutto sull’individuo, guidato da un sentimento perverso di altruismo, inebriato dall’eccitazione, senza alcuna vera conoscenza dell’Islam.
«L’ideologia che muove questi terroristi è importante ma non bisogna trascurare l’aspetto psicopatologico del loro agire. Sono individui che provengono da ambienti moralmente squallidi, con nessuna preparazione teologica o umanistica, che hanno assorbito un sacco di slogan vagamente connessi all’Islam, trovati in rete o ascoltati dai predicatori radicali, che poi collegano a qualche ingiustizia subita dai musulmani ma che non spetta alla violenza risolvere. Ho seguito molto da vicino una lunga serie di processi contro gli islamici militanti in Gran Bretagna. Non si trattava mai di persone sofisticate, ma di individui prevalentemente stupidi, alla fine motivati solo da un odio puro e semplice per l’occidente, per la società in cui vivono e nella quale sono disadattati».

Martin Amis afferma che è la nostra ideologia occidentalista a indebolire la nostra percezione del problema dell’islamismo militante. Nel suo libro lei parla di inettitudine dei governi e della responsabilità della politica liberal...
«Abbiamo le mani legate dalla disastrosa ideologia del multiculturalismo, adottata come alternativa al marxismo leninismo quando questi entravano in coma. Un’ideologia nefasta, che divide la gente in tribù in base a identità particolari, i negri, i gay, e così via, senza tener conto delle differenze individuali. Le tribù diventano comunità con dei leader autoproclamati che non riflettono alcunché ma rafforzano una visione monolitica della comunità portando avanti un discorso vittimista, e i governi si trovano a dover gestire le tribù attraverso queste leadership radicali. Poi si finisce col credere di risolvere tutto con la cosmetica del politicamente corretto. In Inghilterra i terroristi oggi bisogna chiamarli “terroristi antislamici” per non offendere i musulmani, perché secondo il governo i terroristi non hanno niente a che fare con l’islam».

I terroristi contano sull’effetto moltiplicatore della pubblicità. L’uso sapiente che fanno della strumentazione mediatica non potrebbe diventare anche un’arma per il controterrorismo?
«Con i nostri notiziari a getto continuo aggiungiamo delle marce in più alla già sofisticatissima propaganda dei terroristi. Solo riciclando costantemente le medesime immagini si contribuisce a pubblicizzare il successo di esplosioni e stragi. Così come è altrettanto grave diffondere notizie prive di analisi critica, con la scusa che si tratta di una cultura aliena alla nostra. Ma i media potrebbero riscattarsi screditando Al Qaida che come dicono alcuni dirigenti della comunità moderata è vista come una “marca” pubblicitaria globale. I musulmani moderati vorrebbero adottare delle strategie contrarie che pubblicizzino Al Qaida come una marca fallimentare invece che di successo».

Lei sostiene che sul piano pragmatico occorre una polizia ben agguerrita e preparata per affrontare concretamente il terrorismo di oggi. E sul piano politico?
«Non sono un sostenitore acritico dell’occidente. L’occidente oggi si trova di fronte un dilemma fondamentale: come gestire i rapporti con quei governi autoritari e profondamente corrotti del Medio Oriente che si dichiarano impegnati a far la guerra al terrorismo, e che in nome di questo approfittano per compiere nei loro Paesi ogni sorta di repressione. Aiutandoli contro il terrorismo noi finiamo per fare il loro gioco. Ma siamo pigri, preferiamo mandar giù la propaganda... Dovremmo innanzitutto eliminare le ovvie contraddizioni della nostra politica estera, smetterla di chiudere gli occhi sui governi autoritari come l’Arabia Saudita solo perché ci serve il loro petrolio, o inneggiare ad Hamas come si è fatto finora dimenticando il terrore che Hamas semina fra chi non sta ai loro ordini. In società polarizzate fra autocrati e islamisti c’è molta gente ragionevole nel mezzo che attende di potersi esprimere politicamente...».

Lei afferma che si dovrebbe incoraggiare un’ortodossia moderata, aprire un vero dialogo culturale studiando i loro classici e divulgando nelle lingue dell’Islam i nostri...
«Innanzitutto non bisogna cercare di arabizzare l’Islam, benché la lingua del Corano sia l’arabo. Ma dare più attenzione alle vaste comunità musulmane nel mondo, in India, Indonesia, Malesia, in Turchia, non deformate dalle patologie del Medio Oriente dove ci sono una ventina di conflitti in atto. Sentire le loro voci invece di lasciare che gli elementi peggiori del medio Oriente dominino costantemente il dibattito.

Anche in Nord Africa ci sono molte differenze: l’idea di Sarkozy di una Unione mediterranea è molto astuta, il principio è eccellente, perché propone misure pratiche. È più importante, a me sembra, di tutti quei dialoghi interreligiosi che altro non sono che turismo di alta classe con le solite facce. Forse perché sono un vecchio empirico conservatore».

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