E pensare che per primo lavoro si era messo a disegnare cravatte di seta. Gli veniva giù anche bene, ma in fondo sapeva di essere destinato a tutt'altro. L'aveva già capito dai primi calci nel cortile di casa, a Como, la mamma che lo scrutava apprensiva dal terrazzo, papà che li aveva lasciati che lui aveva appena fatto due anni. Poi erano arrivate le partitelle all'oratorio, le prime segnalazioni, il primo calcio che sgorgava dentro la vita di questo talento grezzo, che conteneva troppe cose per limitarsi a oscillare tra le linee di gesso. Gigi Meroni era così: estro purissimo, dentro e fuori dal rettangolo verde.
Giocava ala, Gigi. Numero sette sulle spalle, quello dei cavalli pazzi e dei predestinati. Lo stesso che indossava anche George Best, al quale lo legava una qual certa somiglianza, complice il capello lungo, la peluria in volto volutamente trasandata e, certamente, l'esasperata - ma funzionale - attitudine dribblomane. Un giorno fanno un'amichevole tra Como, dove gioca lui, e Genoa. Meroni fa impazzire i rossoblu. Il fatto è che non lo prendi mica mai. Sottile, rapido, capace di cambi di direzione che mandano gli avversari a conoscere il terreno. I dirigenti del Grifone confabulano subito fitto. Certo che va preso subito, questo qua.
Da quelle parti irradia più della lanterna. Si impone come cardine imprescindibile della squadra allenata da Benjamin Santos, sollevandola in campionato, trascinandola in coppa delle Alpi. La gente lo adora per quelle giocate salvifiche e telluriche, per quel suo saper fabbricare emozioni, che poi è il tratto distintivo riservato agli artisti. Lui fluttua per il campo leggero e inafferrabile. Non a caso gli affibbierenno poi il soprannome più aderente: "La farfalla". Eppoi c'è dell'altro. Il giovane Meroni fende gli anni Sessanta italiani con una verve anticonvenzionale idolatrata da alcuni e detestata da altri. La chiesa lo definirà un peccatore seriale. A tenere banco sono specialmente le sue vicende notturne. Quel suo intrattenersi con donne sposate. La tendenza disarmante a rompere gli schemi costruiti dai benpensati. Per dire: Gigi, immagine indelebile, se ne va molto a spasso con una gallina tenuta al guinzaglio. Il messaggio è limpido: mia la vita, mia le regole.
Quando passa al Torino di Nereo Rocco, nel 1964, a Genova sgorga una sommossa popolare. Ha soltanto 21 anni. I granata si frugano e sborsano 300 milioni delle vecchie lire. Al fianco di Nestor Combin formerà una delle coppie offensive più intriganti. E sempre, al Toro, confermerà quell'impressione pittorica per cui il tratto è preferibile al quadro completo, il dribbling - a patto che sia suo - alla rete gonfiata. Perché Meroni è un inventore di calcio come pochissimi altri in Europa. Pensa cose che altri non vedono. Allaccia alle azioni. Esegue con quelle cadenze che pensi sempre di contendergli la palla, ma poi non la vedi mai.
Quel battito d'ali si interrompe troppo bruscamente una sera di ottobre del 1967. Maledetta serie di coincidenze che irrompe quando non puoi pensarlo mai. Dopo il match vinto 4-2 contro la Samp non trova le chiavi per rientrare a casa, in corso Re Umberto. Allora decide di andarsene al vicino bar Zambon assieme al grande amico Fabrizio Poletti. Indugiano sulla carreggiata, per attraversare. Fanno un passo indietro, accorgendosi che una macchina viene verso di loro. E una Fiat 124 li colpisce. Gigi viene sbalzato sull'altra carreggiata, dove un'altra macchina lo travolge. L'assurdo intreccio del destino pretende che il tizio alla guida della Fiat sia un giovane tifoso granata di 19 anni, Attilio Romero, di ritorno proprio dalla partita. Abita ad una manciata di numeri civici da Meroni. Molto più tardi diventerà presidente del Torino.
Perdere Gigi a 24 anni. Una botta impossibile da assorbire. Quanto calcio avrebbe ancora progettato.
Quanta vita aveva ancora da attraversare, sempre con quello stile lì, personale e irripetibile come un dribbling. Maledetto destino. Come le farfalle: distribuire bellezza per il tempo di un battito d'ala.
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