Dicono che a La Rioja ci sia un piccoletto che ammansisce anche i palloni più recalcitranti. Viene dentro il campo perché adora manovrare. Accarezza la sfera e poi torna rapido verso l'area di rigore, trovando spesso la mattonella giusta per lasciar partire certi fendenti laceranti per le difese altrui. E poi il padre l'ha chiamato Ramón sì, ma anche Angel, come tributo doveroso a Angel Labruna, il geniale attaccante del River Plate. Così Ramón Angel Díaz - questa è la sequenza completa - viene su con le stimmate del calciatore prodigio che sboccia ai piedi delle Sierras Velasco. Alto un metro e settanta appena, disinvolto quando si tratta di fintare, acuminato nel pensiero calcistico.
Se lo prende il River, ovviamente. Con il club e poi con l'Argentina Under 20, al fianco di Diego Armando Maradona, combina cose eccelse. O sufficienti, almeno, per entrare nelle pupille dei club di Serie A subito dopo il mondiale del 1982, dove a dire il vero i rapporti con El Pibe de Oro iniziano a naufragare, segnando di fatto la sua epurazione dalla Seleccion.
Il primo contatto con l'Italia ha le pareti lorde di passione di Napoli, città che sa sbuffare zaffate dal sentore sudamericano, ma non è comunque la stessa cosa. La nostalgia di casa diventa in fretta una compressa al cianuro. Díaz prova a calciarla via, ma quella torna più prepotente ogni volta. E anche i ritmi di vita, gli allenamenti, il cibo, le amicizie, gli affetti: tutto cambiato. Un passaggio che Ramón non riesce a gestire a soli ventritre anni. Così il suo battesimo italiano si tramuta in sogno infranto. In campo è amorfo al punto che sembra poltrire. Invece è semplicemente perso. Venticinque partite di campionato e soltanto due gol. In città gli affibbiano presto un soprannome sconsolato: El puntero triste.
Ma a volte serve arretrare per darsi la spinta. Il club lo parcheggia ad Avellino dopo una sola stagione. Potrebbe essere una situazione ispida, ma lui - in coppia con Geronimo Barbadillo o Bergossi - costruisce in Irpinia un inner circle formidabile. Qui, diluite le pressioni del debutto, sfodera tre anni folgoranti, manifestando un calcio di una seduzione struggente. A dire il vero ad un certo punto potrebbe anche rientrare a Napoli, ma l'acquisto di Maradona fa saltare tutto.
Ora che ha riconquistato la fiducia collettiva acquista galloni ulteriori. L'Avellino affronta difficoltà economiche non irrilevanti e decide di cederlo alla Fiorentina del conte Pontello. Il rendimento sul campo, malgrado una squadra che si piazzerà a metà classifica, farà proseliti tra i tifosi. Ma il rapporto con la società diventa fin da subito intricato: Pontello - recita la vulgata - l'ha preso per far impennare il valore del club. Vorrebbe infatti vendere la viola, ma non trovando acquirenti si ritrova un fenomeno da 700 milioni di lire a stagione a libro paga. Una situazione che lo condurrà al rovinoso licenziamento del suo ds Claudio Nassi e all'impugnazione del contratto siglato con il giocatore. Dribblato questo tumultuoso incipit, Ramón progetterà comunque un calcio luccicante anche a Firenze per un paio di stagioni.
Nell'estate del 1988 un'altra svolta: viene ingaggiato dall'Inter. Trapattoni lo piazza accanto ad Aldo Serena: è l'innesco di una detonazione da 34 gol - 22 Aldo, 12 Ramón - che assicurerà ai nerazzurri lo scudetto dei record.
Sarà anche l'ultimo acuto italiano dell'ex attaccante triste, visto che la Beneamata gli indicherà comunque la porta a fine stagione: limite dei tre stranieri, spazio a Jürgen Klinsmann. Vestiti premuti in valigia dunque, per le ultime tappe della sua carriera. Ma con la sensazione tattile che quel broncio si è aperto in sorriso.
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