"Ciao Baresi, l'avventura è finita" titolano impietosi i giornali del 14 giugno 1994. Pensarla diversamente pare del resto improponibile. Il giorno prima Franco s'è scontrato con Leonhardsen, spigoloso centravanti della Norvegia. L'esito è lacerante: menisco rotto. Seconda partita del mondiale statunitense, quella che vede sbuffare persino Roby Baggio: "Questo è matto", esclama il divin codino al momento della sostituzione per l'espulsione di Pagliuca. Il soggetto è Arrigo Sacchi. Ma sicuramente il capitano del Milan se la passa molto peggio.
Ha 34 anni, Baresi. Si avvia rapidamente verso la fase conclusiva di una carriera fotonica. Quel mondiale, Usa '94 appunto, rappresenta l'ultima chance utile per sollevare la coppa del mondo da protagonista in campo. Roba che ancora langue in un palmares ricchissimo con il diavolo. Però adesso la sfortuna ha lanciato una mano infida. Come fai ad infortunarti in quel modo e pensare di rientrare in tempo per giocare ancora, ammesso che gli azzurri proseguano anche senza di lui? Sinceramente impronosticabile. Baresi viene subito operato e resta con la truppa, ma per assistere da bordo campo.
Nel frattempo l'Italia avanza. Non a forza di prestazioni monumentali. Anzi: i successi arraffati sono sovente patiti, stazzonati, strappati. Roby Baggio ci mette un mucchio a svegliarsi. In tv Bruno Pizzul alterna liturgicamente il suo nome a quello del collega Dino. Passaggio soffertissimo del girone come terza classificata, dopo aver impattato con il Messico. Comunque avanti, mentre tutto intorno sembra franare: Zola espulso, ma battiamo la Nigeria. Tassotti rifila una gomitata a Luis Enrique che finisce in una pozza di sangue, ma passiamo contro la Spagna. Eppoi Roberto Baggio ci trascina in finale, trafiggendo la sorprendente Bulgaria.
In tutto questo Baresi osserva, impaziente, da fuori. Scocca il 17 luglio 1994. A Pasadena, sotto una calura imperante, Whitney Houston accarezza la folla prima di Italia - Brasile. Il paese intero, fino alla sera prima, è in apprensione per Roby, che pare ammaccato. Figurarsi se pensano, gli italiani, che possa recuperare Baresi. Eppure alla vigilia i giornali hanno vaticinato il possibile miracolo: "La sorpresa per la finale".
Rumours che avevano iniziato ad affastellarsi tre giorni prima dell'evento, subito rigettati però dal preparatore atletico Pincolini: "Chiedergli di giocare sarebbe come pretendere di correre il tour de France avendo fatto solo un po' di cyclette". Sentenza tombale? Macché. Baresi non è uno che depone le armi facilmente. Quella coppa lui la vuole sollevare ad ogni costo, anche perché nel 1982 l'ha vista soltanto dalla tribuna.
Così all'ora di pranzo americana, nel sobbollente ventre del Rose Bowl, eccolo lì in fila in mezzo al campo al rintoccare degli inni nazionali. Come se nulla fosse successo. Quel suo miracoloso recupero viene certificato da 120 minuti spaziali. Anticipi, senso della posizione, scivolate, contrasti, recuperi fluidi, proiezioni in avanti. Romario e Bebeto, praticamente il meglio alla voce "attaccanti letali" trent'anni fa, vengono domati e derubricati a pericoli minori.
Quell'impresa resterà soltanto parzialmente rigata da un pallone che si impenna quando Franco, portatosi stremato sul dischetto per dare l'esempio, cambia l'angolo all'ultimo istante vedendo Taffarel muoversi. Ma la favola umana e sportiva del capitano generoso resta intatta. Sacchi alla fine si dirà commosso.
Bebeto e Romario confesseranno che Baresi è il difensore più forte mai incontrato. Lui si appenderà una medaglia d'argento al collo, ma nel cuore dei tifosi italiani lo scintillio sarà sempre quello dell'oro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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