Caro amico fragile Bisogna ripartire dalla tua «passione libertaria»

di Cesare G. Romana

«Di Fabrizio - mi dice Ivano Fossati - abbiamo capito molto, ma non tutto. Ci sono, nelle sue opere, lucidità, profondità, scomodità che dobbiamo ancora scoprire. Sempre che si riesca a passare dal compianto celebrativo all'analisi vera». Ecco, a dieci anni dal congedo di De André, ci pareva di saper tutto di lui: la sua musica, la poesia cui s'inchinarono Antonio Tabucchi, Nanda Pivano, Mario Luzi, la voce che stregò Bob Dylan, David Byrne, Wim Wenders ci appaiono, mercé i suoi dischi, familiari ed esplicite. Quanto alla sua spicciativa, eppure solidissima affettività, provvedono a reiterarla, in chi l’ha avuto fratello, i tragitti indispensabili della memoria.
E tuttavia dieci anni non sono bastati a spiegare il mistero che, su De André, continua a gravare. L’enigma d’una presenza-assenza che col passare del tempo vede la presenza soverchiare, sempre più, l’assenza, fin quasi a dissolverla. Mai un artista della canzone è riuscito, come Fabrizio, a sopravvivere nell'amore del pubblico con così crescente immanenza. Senza tuttavia lasciarsi inscatolare «in un semplicissimo mi ricordo», come cantava lui stesso in Amico fragile: ossia nei vapori avvelenati della nostalgia, o in quelli fantasmatici del mito.
No, a un decennio dalla sua morte apparente, nostro fratello Fabrizio continua a restare tra noi, nel modo quasi fisico che la poesia concede ai suoi defunti: con tutta la sua, appunto, profondità, lucidità, scomodità. Perché? Lo capiremo meglio se utilizzeremo questo decennale non per commemorarlo - le commemorazioni s'addicono ai morti, dunque non a lui - ma per ringraziarlo di esserci. E per meglio svelare l'incomoda, preziosa veemenza di pensiero che la sua opera continua a donarci, grazie anche ad un acume profetico che, in quest'epoca di amoralità istituzionalizzate, continua a trovare conferme.
L'invito è, dunque, non a piangerlo ma a riflettere. A rovistare nel dovizioso granaio della sua opera, che non nasconde gramigna. A lasciarsi ferire dal suo senso agro della realtà, disincantato e tuttavia mai immune dal garbo dell'utopia.

Soprattutto a ragionare sulla sua «scandalosa» passione libertaria: che nell'80, uscito dalla prigionia sul Supramonte, lo indusse a cantare il suo amore alla «signora libertà, signorina anarchia/ così preziosa come il vino/ così gratis come la tristezza». Ecco da dove ha da partire, oggi, la nostra rivisitazione, e dunque il nostro grazie.

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