La fabbrica dei giocattoli non esiste solo nei film su Babbo Natale, per trovarla basta andare nelle Marche. A Recanati, precisamente, è lì da cinquantatrè anni. Clementoni vanta un fatturato di 175 milioni di euro, i bilanci dicono che il giro d'affari è cresciuto del 50 per cento in sei anni. Dà lavoro a 500 persone in Italia più un'altra ottantina nelle sedi all'estero, dalla Germania a Hong Kong. Giovanni Clementoni, figlio del fondatore Mario Clementoni, è amministratore delegato del gruppo dal 2002.
Lei crede a Babbo Natale?
«Mai creduto un solo giorno in vita mia».
Ma come? Con un papà come il suo...
«Mio padre è stato un imprenditore tra i tanti che hanno fatto grande l'Italia dell'epoca. Solo che si mise in testa una cosa particolare...».
Quale?
«Nel 1958, o giù di lì, andò a visitare la fiera dei giocattoli di New York. Tornò con un'idea. Aveva capito che da noi nessuno sapeva cos'erano i giochi in scatola. Così si mise a farli lui».
La prima creazione?
«Sfruttò l'esperienza che aveva accumulato con gli strumenti musicali. S'inventò una tombola che prendeva spunto dalla melodia italiana. Subito dopo il Festival di Sanremo uscì con questa tombola speciale, al posto del tabellone dei numeri aveva un organetto che suonava le canzoni, mentre sulle cartelle trovavi il nome del brano da indovinare. Geniale».
Gli esperti oggi la chiamerebbero interazione crossmediale.
«Lui aveva una spiccata sensibilità nel marketing, infatti. L'ispirazione, il volano, furono i programmi della Rai e i quiz delle reti commerciali. Vuole sapere un episodio per inquadrare meglio il personaggio?».
Ce lo racconti.
«Capì che i giocattoli, nell'Italia post boom economico, sarebbero stati un bene di largo consumo. Perciò comprò il primo spot pubblicitario in tv prima ancora della casa in cui vivevamo, perché allora eravamo in affitto. Ricordo che era il 1970, il programma si chiamava La Tv dei ragazzi, in bianco e nero. Io ero ragazzino, ma ricordo che facemmo un rinfresco con gli operai nell'azienda, un televisore era stato montato su uno scaffale per assistere alla messa in onda. Fu un evento».
Il testimonial a cui siete rimasti affezionati?
«Il mago Silvan. Siamo stati veicolo di notorietà a vicenda».
Clementoni è un marchio cult anche per le generazioni «a colori», per i nati dagli anni '80 in poi.
«Il passo decisivo fu un'illuminazione. Il gioco come uno strumento per imparare cose che sarebbero servite al bambino in futuro, una volta diventato grande. Così nacque il mitico Sapientino, capostipite della linea educativa, ispiratore di tutto quello che è successo dopo...».
Dopo siete arrivati voi, quattro fratelli che hanno ereditato un piccolo impero...
«Quando abbiamo preso in mano l'azienda, una ventina di anni fa, più che un marchio o un volume di fatturato, abbiamo ereditato un progetto possibile con una novantina di dipendenti. Un'idea forte con dei valori da declinare attraverso linee di prodotti attinenti: giochi educativi applicati ad età differenti, partendo dal famoso Grillo Parlante degli anni '80 fino ai computerini e continuando con i giochi Sapientino per i bambini in età prescolare, i puzzle, la linea creativa, quella scientifica, fino ai giocattoli per la prima infanzia, ormai 17 anni fa. Tutto è stato dettato dalla necessità di perpetuare la creatività di mio padre Mario».
E di vostro, cosa ci avete messo?
«Da parte nostra abbiamo capito che bisognava crescere, lavorando sodo sulla ricerca e sviluppo, e abbiamo creato tutto in casa perché attorno a noi non c'era, come si dice in gergo, distretto».
Facile lavorare fianco a fianco tra fratelli?
«Facile non è mai niente, eppure devo dire che per noi non è stato difficile. Mio padre, e anche mia madre, avevano già predisposto tutto e ci hanno trasmesso negli anni una certa consapevolezza. Del resto per noi azienda e famiglia sono sempre stati un tutt'uno, non abbiamo mai avuto dubbi sul fatto che avremmo lavorato insieme. Ognuno ricopre un ruolo diverso, e comunque ci sono compiti delicati affidati anche a manager esterni. Il modello direi che funziona».
«Il gioco è una cosa seria», diceva suo padre Mario, scomparso quattro anni fa a 87 anni. Un motto che vale come testamento?
«L'azienda è una cosa seria. Con quei valori non si può scherzare e si portano dietro coerenza. Viviamo grazie alla fiducia che migliaia di genitori ripongono in noi».
Quando e come nasce un giocattolo?
«Ci vuole passione, creatività, fantasia certamente. Ma è pur sempre un mestiere, un'industria con le sue regole finanziarie, economiche e di processo. Per il resto lavorare per e con i bambini è perfino divertente, anzi entusiasmante. E la cosa qui in azienda si percepisce subito, i giovani che vengono a lavorare da noi rimangano molto coinvolti».
Ma chi ci lavora nei vostri laboratori «segreti» di ricerca e sviluppo?
«Persone normali. Non hanno mica le orecchie a punta come gli gnomi delle fiabe... Scherzi a parte sono giovani, tutt'altro che smanettoni, laureati in Lettere, Economia, Filosofia, Matematica. Il percorso di studi non conta più di tanto. Conta la predisposizione a lasciarsi coinvolgere. Ideare un nuovo gioco significa occuparsi di tutte le fasi dello sviluppo e capire come si muovono i trend. Il ciclo di un prodotto è diventato estremamente veloce, così come ha successo, così, in breve tempo, viene consumato».
Manca meno di una settimana al Natale. Avete già sistemato i sacchi sulle slitte?
«Da Recanati quest'anno sono uscite oltre 30 milioni di scatole. La stagionalità nel nostro settore è drammatica. Tutto si vende nelle ultime quattro settimane prima del Natale, da fine novembre al 24 dicembre mattina. Da settembre lavoriamo senza sosta perché tutti gli scaffali dei negozi siano riforniti, in Europa e nel mondo. Il giorno 25 arriva la sentenza. E non c'è un appello, o una seconda possibilità».
Questione di organizzazione.
«L'impulso è di orientare l'attività su scala internazionale, abbiamo aperto filiali commerciali in Europa e in Turchia, con una filiale operativa a Hong Kong, in modo che tutto questo potenziale creato a Recanati possa essere distribuito e riconosciuto nel mondo».
Magari siete diventati appetibili per qualche colosso globale in vena di fare acquisti all'estero.
«Un'azienda che cresce ed è in salute per forza di cose è appetibile, ma non è in discussione niente del genere al momento».
I giocattoli «made in China» sono un pericolo per la sicurezza dei bimbi?
«La scelta di produrre per l'80% a Recanati non è né un vanto né una sfida, è una cosa naturale. Cina vuol dire tante cose, non ha senso alimentare stereotipi, è un Paese in cui si producono tecnologie avanzate e dove, in parallelo, si lavora a produzioni molto economiche che comunque servono al mondo. Andare in Cina, sebbene vi siano situazioni-limite, si può andare anche per produrre prodotti di qualità. Noi progettiamo tutto nelle Marche, ma facciamo altrove tutto quello che non possiamo fare in Italia, a livello di tecnologie soprattutto, che si implementano solo laggiù».
Come giocano i bambini di oggi rispetto ai coetanei di mezzo secolo fa?
«Oggi i bambini dispongono di mezzi nuovi già in tenerissima età, questo non può che coinvolgerli in un particolare mood. Ma i bambini restano bambini anche con uno smartphone tra le mani. E i giochi tecnologici possono essere sì alienanti, ma anche offrire meravigliose avventure multimediali. Non dimentichiamo che i piccoli vogliono semplicemente giocare».
I giochi da tavolo erano un'altra cosa però...
«I giochi da tavolo si differenziano rispetto a quelli da tastiera perché sono sociali, non social, mi verrebbe da dire. Che i bimbi crescano giocando insieme è fondamentale. Purtroppo però le famiglie di oggi hanno sempre più spesso un solo bimbo a bordo».
L'impatto della tecnologia sui bambini è positiva, secondo lei?
«Un gioco in scatola, come un tablet, è un contenitore che va riempito appunto non solo di componenti ma di contenuti, regole, personaggi. La tecnologia non è positiva o negativa di per sé; è positiva quando un bambino la utilizza in maniera proficua e non vincolante. L'offerta ormai è molto vasta, vederli piantati sulle consolle, o sui cellulari per ore e ore, non è certo una cosa buona. La tecnologia non va subita ma interpretata, con un pensiero logico. I bambini del futuro lo dovranno saper fare ancora di più».
Sono proprio quelli ad alto tasso di tecnologia i prodotti che danno più soddisfazione sul mercato?
«I giocattoli sono cose semplici, devono andare in mano ai bambini: sono loro i giudici del nostro lavoro. Spesso si ha la sensazione di avere in mano un bel prodotto, ma è talmente bello che poi rimane sugli scaffali perché non ne sono attratti. Quando si soddisfa troppo l'ego dell'ideatore, con prodotti particolarmente complessi e senza confrontarsi con le esigenze dei piccoli si fallisce».
Ma chi decide davvero di acquistare un giocattolo, i genitori o i figli?
«I bambini sono molto più consapevoli di ieri ad un età sempre più anticipata, così come si anticipa il momento in cui si smette di giocare con i giocattoli. La fiducia dei genitori comunque resta un elemento imprescindibile».
Pochi chilometri separano Clementoni dalla Rainbow, dove sono nate le fatine Winx campionesse di incassi nel pianeta. Le Marche sono diventate il Paese dei balocchi d'Italia?
«Con la Rainbow c'è un rapporto di amicizia e collaborazione, è un fiore all'occhiello della nostra terra. Le Marche sono famose per i mobili, le scarpe, gli strumenti musicali e le navi, non certo per i cartoni animati o per l'industria dei giochi. Per questo siamo delle eccezioni, altro che Paese dei balocchi...».
Una terra che da mesi non smette di tremare.
«La nostra zona è abituata da sempre a qualche scossetta. Ma vivere a due passi dall'epicentro è un'altra storia. Noi grazie a Dio non abbiamo interrotto un solo giorno la produzione, ma nel raggio di 15-20 chilometri ci sono paesi che stanno conoscendo disagi impressionanti, decine di migliaia di famiglie che non hanno più una casa stabile. Persone che sono andate a vivere negli alberghi, che hanno comprato le roulotte...».
Un trauma duro da superare.
«Una condizione di precarietà che non conosce quartiere o differenze sociali. Le aziende però hanno ripreso a lavorare quasi tutte immediatamente. Questo è il carattere dei marchigiani».
La politica vi ha dato una mano a ripartire?
«La politica è una cosa, i politici sono un'altra... La politica non può non interessare tutti, la democrazia presuppone la partecipazione. Avere contatti coi politici invece è un'esperienza umana, con alcuni di loro ho avuto esperienze positive, altri diciamo che hanno lasciato a desiderare. Ma non dirò mai cosa ho votato al referendum».
In Italia c'è ancora voglia di giocare (e di spendere per questo)?
«Giocare è un bisogno naturale, è trasversale, riguarda tutte le culture e tutte le epoche. Nei Paesi più ricchi si spende di più: in Europa se la battono Regno Unito e Germania. In Italia si spende più o meno sempre la stessa cifra. Anche se ci sono meno nascite, il mercato è più resistente; in questi anni di crisi ci sono state meno ripercussioni rispetto ad altri settori».
Da bambino c'era un giocattolo da cui non si separava mai?
«Giocavo molto fuori, per strada, in gruppo. Si usciva alle due del pomeriggio e si rientrava alle otto. Sono nato poco dopo il picco della natalità: di bambini in giro ce n'erano una marea, facevamo i turni per andare a scuola per quanti eravamo. Ecco, può sembrare il colmo ma io ricordo i giochi che facevo con gli altri, mentre di giocattoli non me ne viene in mente nemmeno uno. Eppure, può immaginare, avevamo la casa invasa. Ogni giorno mio padre portava un gioco diverso, per studiarlo. Però non dimentico il soprannome che mi diedero i miei compagni».
E cioè?
«Clem Clem. E anch'io, adesso, chiamo così mio figlio di quindici anni. Lui il giocattolo preferito eccome se ce l'ha: il motorino».
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