Che noia i vichinghi cattivi in un’orgia di inutile violenza

Seguendo le indicazioni di John Ford in L’uomo che uccise Liberty Valance, il regista tedesco Marcus Nispel dovendo scegliere tra realtà e leggenda, sceglie la leggenda. Comodo e remunerativo: Pathfinder è un efferato, uggioso, monocromatico e ripetitivo racconto barbarico, che ha numerosi progenitori: Conan il barbaro, Il tredicesimo uomo, persino Aleksandr Nevskij, ma sono rimandi privi di nobiltà, affogati nelle tenebre di una vicenda tracimante di carneficine, che ha lo stile di un videogame e la stolidità di una saga nata in una notte di baldoria.
Partendo dall’ormai acclarato passaggio vichingo nell’America di un migliaio di anni fa, vi si narra di un fanciullo, unico superstite di una nave norvegese, raccolto dalla tribù indiana Wampanoag, che 15 anni dopo è un invincibile cacciatore e guerriero, che si schiera con la sua tribù per respingere le reiterate scorrerie di quello che un tempo era il suo popolo. Con un espediente poco originale, mutuato da Mel Gibson, ascoltiamo i vichinghi parlare l’islandese, con didascalie, allo scopo di rendere ancor più spaventose queste belve umane, solo perché il suono di questa lingua risulta vagamente alieno. Ghost, il protagonista, il flaccido attore tedesco Karl Urban, ha l’aria di un reduce dell’Oktoberfest, piuttosto che il piglio eroico che il personaggio dovrebbe ispirare.

Un film dalla violenza inaudita ed insultante, che fa apparire ancor più grottesche le proteste riguardanti in particolare l’ultimo film del già citato Mel Gibson, Apocalypto.

PATHFINDER (Usa, 2006) di Marcus Nispel con Karl Urban, Russell Means. 104 minuti

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