C'eravamo appena abituati
alla par condicio, adesso si sono
inventati la pianobar-condicio.
Tarantella di maggioranza e tarantella
d'opposizione. Al Festival
di Sanremo occorre ascoltare
entrambe le campane: possibilmente
intonate.
Per ore abbiamo visceralmente
sperato che una qualche mente
geniale della Tv di Stato si alzasse e dicesse:
ci siete cascati come pere,
è tutto uno scherzo, ma
vi pare che adesso imbavagliamo Apicella, co-autore
di Agelusia con il presidente del Consiglio?
E invece no. Mariano il cantore berlusconiano
come Bin Laden: un caso di
sicurezza nazionale.
A leggere la notizia ancora ci trema la
penna dalle risate. Sul palco di Domenica
In-Speciale Sanremo il paroliere del
premier non canterà, e la conduttrice
Monica Setta spiega contrita come mai
si sono rimangiati l'invito: «Abbiamo detto
di no per una questione di par condicio,
per evitare strumentalizzazioni politiche...
abbiamo cercato un cantautore
d'opposizione, ma nessuno ha risposto
all'appello». Giusto: il contraddittorio innanzitutto.
Non sia mai che uno gorgheggi Ammore senza ammore in mancanza
di regolare controparte. Che so,
un Gino Paoli, un Caparezza, un Jovanotti che dica la sua.
Che esponga la sua
concezione del pentagramma visto da
sinistra. Altrimenti è un guaio: si rischiano
multe salate da parte dell'Agcom,
l'Autorità Garante della Commedia Musicale.
Sarà il festival della par condicio, questo: dopo l'esibizione di Benigni, adesso ci aspettiamo sugli schermi un guitto di destra con il medesimo cachet. E i presentatori? E gli operatori di ripresa? E gli orchestrali? In prima fila l'altra sera c'era il primo violino con un barbone da Marx, certamente di sinistra: cosa aspettano a ristabilire la par condicio con un flautista di destra? O perlomeno un basso tuba democristiano? D'altronde, come dice la Setta, «è un momento delicato per l'Italia, la canzone scritta da Berlusconi avrebbe avuto una valenza politica troppo forte». Certo, troppo forte, la valenza. Per la cronaca, la primastrofa della terroristica opera in scaletta (tema d'amore su ritmo brasiliano intitolato Ma se ti perdo) è questo: «È il chiodo fisso che ho, ma se ti perdo non so più che fare/ sei la mia follia, sei la mia mania/ come una marea che mi sbatte forte dentro e ancor di più». Più che un testo berlusconiano, sembra il testamento veltroniano al partito: «Se ti perdo non so più che fare».
Ma detto questo, per carità, hanno ragione in Rai: è evidente che una prosa di tal fatta, senza contraddittorio, con quel ritmo brasiliano, avrebbe provocato uno scontro istituzionale col Quirinale, con la Corte costituzionale e col Festivalbar. È evidente la frattura che avremmo creato con le Nazioni Unite e il Dj Francesco, con la Casa Bianca e la casa discografica di Jimmy Fontana e Little Tony. Evidente. Oddio, poi parliamoci chiaro: che in tutto il territorio nazionale non si trovi un menestrello orientato a sinistra, è difficile crederlo. Perché la lista è lunga, da Celentano a De Gregori a Guccini: voglio dire, basta andare in piazza san Giovanni il primo maggio, e ne peschi quanti ne vuoi. Eppure gli autori di Domenica In hanno girato e rigirato, hanno passato in rassegna concerti e fiere di paese, hanno scandagliato i conservatori da Bolzano a Canicattì, ma niente. Non uno straccio di un Piero Pelù, un Vecchioni, andava bene anche un Peppino di Capri. Niente. I conduttori del programma erano disperati, tant'è che hanno rilasciato alla stampa questa accorata dichiarazione, che merita di finire nei libri di storia repubblicana: «Vogliamo rivolgere un appello: se c'è un cantante che vuol portare da noi un testo di Walter Veltroni, lo accogliamo a braccia aperte».
A parte il fatto che, con l'aria che tira al Pd, c'è il rischio di intonare in prima serata non una canzonetta, ma un requiem.
Però non è detto. Ora che ha perso il lavoro, consigliamo a Veltroni di andare all'Ariston direttamente a cantare. Così al Festival ristabiliamo finalmente l'equilibrio democratico. Perché quello mentale, ormai, è irrecuperabile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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