La grande giostra delle due ruote sta per passare dal lungo festival del mondiale scozzese al terzo Grand Tour, la Vuelta a España che si è messa in testa di fare concorrenza al nostro Giro. A Glasgow si è visto qualche successo, sì, ma anche una serie di delusioni difficili da digerire. La cosa che fa più male è che, al via della corsa in linea, quella che fino a non molti anni fa dominavamo quasi ogni anno, la consapevolezza fosse che solo un miracolo avrebbe potuto portare l’iride nel Bel Paese. La strategia ha funzionato, il coraggio c’era, la determinazione pure ma quando Mathieu van der Poel si è messo in testa di vincere, non c’è stato niente da fare. Il paese dei Coppi, dei Bartali, dei Pantani, da qualche anno è incapace di produrre un talento in grado di battersela con tutti. Il fatto che il mondiale manchi da così tanti anni non è un caso: l’Italbici sforna tanti ottimi ciclisti ma nessun campione. La cosa è davvero inspiegabile in un paese dove la passione per le due ruote è ancora vivissima, tanto da spingere a fare qualche considerazione sotto l’ombrellone. Cosa è cambiato? Perché non riusciamo più ad avere un campione in grado di infiammare le folle come faceva il Pirata ogni volta che la strada saliva?
Solo un momento nero?
Per un paese come il nostro, considerato per decenni la vera patria spirituale del ciclismo, accorgersi di non essere più il centro del mondo non è un’esperienza piacevole. Lo sgomento da parte dei tifosi e di chi vive il mondo delle due ruote è quantomai evidente. Ti guardi in giro e vedi che la passione di una volta è ancora viva e vegeta, che i giovani in bicicletta non mancano, ansiosi di dare il massimo e puntare al top. Il sottobosco degli amatori, di chi si allena ogni giorno per provare ad imitare gli idoli della sua infanzia, è ancora ben presente, come le tante squadre semiprofessionistiche che offrono una buona palestra ai futuri talenti. La professionalità non manca, i tecnici italiani sono in posizioni di vertice in tante squadre pro, il che rende ancora più inspiegabile come una tale montagna di entusiasmo abbia prodotto il proverbiale topolino. Guardandosi indietro, difficile ricordare un periodo così negativo per il movimento delle due ruote azzurre: ci sono stati momenti nei quali avevamo grandissimi talenti nelle classiche, gente come Moser, Saronni, Argentin, che però avevano problemi ad emergere nei Grand Tour. Eppure, anche loro, nelle condizioni giuste, riuscivano ad infiammare i tifosi azzurri.
Più avanti, abbiamo vissuto un’epoca con il problema opposto: avevamo grandi campioni che nell’ambito delle tre settimane riuscivano ad entusiasmare il pubblico ma che, sul pavé del Nord Europa o nelle grandi classiche italiane, avevano molti più problemi ad emergere. Francamente, lasciare la Liegi-Bastogne-Liegi agli specialisti del Benelux quando avevi campionissimi come Pantani o Nibali che se la battevano fino all’ultima salita per riuscire a portare a casa un Tour o un Giro non sembrava un gran sacrificio. Avevamo passato anni ed anni senza avere un talento in grado di dire la sua sul parquet, la difficile arte di sfrecciare nei velodromi sembrava persa del tutto ma ci consolavamo con gli altri successi. Un momento così fosco, nel quale le uniche gioie arrivano dalla pista o dalle cronometro, è davvero difficile da digerire. Cosa è andato storto?
Questione di personalità?
Guardandosi in giro, anche una rappresentativa risicata come quella presentata nell’ultimo Tour de France poteva offrire ciclisti di buonissimo livello, molto preparati, stimatissimi dalle rispettive squadre ma nessuna vera eccellenza. Forse è proprio per questo che la maglia a pois dell’abruzzese Giulio Ciccone, una volta quasi schifata alle nostre latitudini, è stata celebrata come poche altre: ci siamo così disabituati alle vittorie che anche una maglia che da noi non ha il gran fascino d’oltralpe è occasione per grandi festeggiamenti. L’eccezione che conferma la regola c’è, ovviamente, come hanno avuto occasione di verificare gli spettatori del velodromo di Glasgow. Anche quando sembra troppo tardi, Filippo Ganna si tiene sempre un asso nella manica. Il giochetto, purtroppo, non gli è riuscito nel duello contro il cronometro con un talento hors categorie come Remco Evenepoel, che ha tirato fuori chissà dove una seconda frazione stellare, ma di solito queste cose finiscono con il piemontese in maglia iridata. Visto che l’età non è più verdissima, sta provando a reinventarsi come specialista delle corse da un giorno: non ci siamo ancora ma la distanza non è tanta, come il secondo posto alla Milano-Sanremo ed il quinto alla Roubaix testimoniano. D’altro canto, però, la stessa prepotenza muscolare che lo rende in grado di spingere rapporti assurdi per gli esseri umani ‘normali’ gli si ritorce contro quando la strada si impenna.
Pur con tutto l’ottimismo del mondo, a parte, forse, Damiano Caruso, che sfiorò il trionfo al Giro nel 2021, immaginare che un ciclista azzurro possa battersela alla pari contro i più forti, quelli che nel momento della verità hanno sempre un extra di talento in più, è improponibile. Non il massimo per un paese che, fino a non molti anni fa, insegnava ciclismo a mezzo mondo. Trovarsi qui, ad invidiare non solo il Belgio o l’Olanda, paesi che alle due ruote danno del tu da una vita, ma addirittura un paese come la Slovenia, capace di produrre due talenti mostruosi come Pogacar e Roglic nella stessa generazione, è abbastanza deprimente. La sensazione, però, è che ai tanti bravissimi ciclisti azzurri, da Ciccone a Bagioli, da Milan a Caruso, manchi ancora qualcosa, il piglio del campione, la determinazione feroce di mangiarsi le gare, di imporre in qualche modo la propria legge. Si diceva che Ciccone doveva fare il salto di qualità, che immaginarselo in lotta per la generale era assurdo. Il risultato del Tour 2023 ha provato il contrario. In quanto alla storia della personalità, guardate un attimo Jonas Vingegaard, tanto timido da sfiorare l’assurdo, un caso di anti-mediaticità da studiare nelle facoltà di comunicazione. Insomma, il problema sembra un altro
Manca solo una squadra?
Con la partenza della Vuelta dietro l’angolo, l’umore del tifoso delle due ruote italiano, spaparanzato sotto l’ombrellone, sembra davvero sotto i tacchi. Parte un Grand Tour e non abbiamo nemmeno il coraggio di sperare in un miracolo, nella sorpresa che sparigli le carte. Anche se non mancano certo gli outsider, il panorama sembra già definito: nelle corse da un giorno se la giocano Van Aert, Van der Poel o Evenepoel, quando invece di va sulle tre settimane, se la giocano Pogacar, Roglic e Vingegaard. Di italiani o francesi, i due paesi che un tempo dominavano il ciclismo, lasciando agli altri le briciole, nemmeno l’ombra. Possibile che ai malati delle due ruote tocchi davvero tifare per un campione straniero, pronti a fare festa per una bella fuga, una volata persa di pochi centimetri, la solita storia della sconfitta ‘a testa alta’ che fa imbufalire chi pensa che il secondo sia solo il primo dei perdenti. Le cose, però, potrebbero stare in maniera diversa. I talenti in Italia ci sono, ci sono sempre stati. Quello che manca sono le squadre che gli diano spazio, che puntino su di loro per andare oltre alle vittorie di tappa. Guardate Ciccone. All’inizio del Tour era l’unico ad affermare che puntava alla maglia a pois: i dirigenti della sua squadra, ovviamente straniera, puntavano sul suo capitano, il danese Skjelmose per la generale. La classifica scalatori è tornata importante quando si è capito che lo scandinavo non era al massimo e che, invece, l’abruzzese di birra ne aveva a pacchi.
A sentire Cordiano Dagnoni, presidente della Federazione ciclistica italiana, il vero problema del mondo del ciclismo italiano è proprio questo: manca la fiducia nei nostri talenti, la voglia di metterli in condizione di giocarsi sempre le sue carte, invece che lavorare per gli altri. “All’Italia non mancano atleti bravi, ma manca una squadra di livello, una squadra World Tour che possa valorizzare i nostri corridori. Filippo Ganna è arrivato secondo alla Milano-Sanremo, però è in una squadra dove fanno il lavoro per altri atleti, quelli britannici”. Questione annosa, in effetti, che sembra fatta apposta per rinfocolare le polemiche, per prendersela con la mancanza di sponsor, sull’assenza di una politica industriale che ha consegnato i marchi storici delle due ruote alle proprietà straniere e chi più ne ha più ne metta. Invece di prendersela con l’assenza delle ciclabili esclusive, come se fossero la panacea di tutti i mali, non sarebbe il caso di chiedersi perché i nostri talenti non siano mai presi davvero sul serio? Quando gli viene data la luce verde, spesso e volentieri mettono gare memorabili, da applausi. Lasciando da parte dietrologie e nazionalismi d’antan, iniziamo a chiederci se, forse, non manchi qualcosa non dal punto di vista politico ma, magari, mediatico.
I dirigenti delle squadre straniere non ce l’hanno con i nostri talenti: preferiscono puntare su altri perché, magari, sono più popolari, fanno più contenti gli sponsor. Alle nostre latitudini, invece di sostenere a spada tratta i giovani talenti, si preferisce spesso rifugiarsi nel culto del passato, nella memoria dei nostri grandissimi campioni di una volta. Certo che avere in corsa un talento carismatico come Pantani farebbe un gran bene al ciclismo italiano ma siamo sicuri che uno come lui potrebbe davvero emergere nel ciclismo di oggi? Risposte facili, come al solito, non ce ne sono.
Toccherà sorbirsi un altro Grand Tour da comprimari, festeggiando vittorie di tappa come se fossero trionfi epocali. Magari, però, proviamo a sostenerli un po’ di più, questi nostri giovani talenti. Male non farà di sicuro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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