Quando il Giro d'Italia pagò Alfredo Binda per non correre

Nel 1930 gli organizzatori della corsa rosa, esasperati dal dominio del ciclista e intimoriti dagli abbandoni dei rivali, aprirono il portafoglio: ventiduemila e cinquecento lire per non presentarsi

Foto Wikipedia
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Si scambiano lunghi sguardi interlocutori, senza riuscire ad estrarne una risposta. E adesso come fanno? Come ne escono? Sospirano fitto, mentre l'aria spessa della stanza appanna i pensieri. Emilio Colombo apre la finestra e scaccia un insetto con una copia de La Gazzetta dello Sport. Poi torna verso la sua poltrona e, sedendo, viene colto da un'epifania. "Armando, ci sono. L'unica è non farlo correre". Quell'altro, che poi sarebbe Armando Cougnet, dapprima lo prende per pazzo. Allontana quella proposta con il palmo della mano divaricato. Poi si lascia circuire dal dubbio. "Anche se fosse, come potremmo?". Inizia così una delle vicende più surreali del ciclismo nostrano. Inizia così il sabotaggio consensuale di Alfredo Binda al Giro d'Italia del 1930.

I fatti. Binda, che ha ventotto anni, ha vinto fino a lì per quattro volte. Nel Venticinque, nel Ventisette, nel Ventotto e nel Ventinove. E non è che abbia conseguito successi stiracchiati. Ha divorato il Giro. Cannibalizzato gli avversari. Demoralizzato gli allibratori. Sconfortato giornalisti e pubblico accorsi per intravedere una qualche forma di contesa. Insomma, se corre Binda non c'è partita. Un sentimento che si è fatto talmente forte, negli ultimi tempi, da cambiare stato fisico. Prima sembrava una vaporosa boutade e nulla più. Adesso pare terribilmente tangibile. Prima la voce di un pugno di corridori che avrebbe deciso di rinunciare all'edizione del Trenta. Poi quella rimbalzata negli ambienti di alcune tra le squadre principali. Chiaro che il direttore della Gazzetta, che il Giro lo organizza, adesso esprima un legittimo timore. Potrebbero non iscriversi i corridori. Potrebbe mancare addirittura una fetta di pubblico.

Magari quegli stessi che, non più tardi di un anno fa, hanno fischiato sonoramente il trombettiere di Cittiglio. Stanchi di vederlo vincere. Esausti nel dover constatare che tanto, anno dopo anno, il Giro resta roba strettamente sua. Così manca il sapore agrodolce della sfida. Così le emozioni crepitanti si spengono sul nascere, crivellate dalla pedalata irrestibile di Binda. Così non ha quasi più senso. Alfredo si stringe nelle spalle, i capelli impomatati, quella perenne faccia da buono. Non appartiene certo al girone infernale dei supponenti. Ma ha il difetto di essere di un'altra categoria e questo è sufficiente per essere odiati.

Quindi urge sbrogliare la matassa. Per farlo, Colombo e Cougnet tessono l'unica delle trame davvero plausibili: montano in macchina e vanno ad offrire soldi - un mucchio di soldi - alla Legnano, il team di Binda, quello che costruisce le biciclette. Sulla porta, già informato, li attende il commendatore Bozzi, il padrone della fabbrica. Parlano fitto per un paio di ore, fintano, bluffano, poi si trovano d'accordo. La mano si stringe intorno alla cifra monstre di ventiduemila e cinquecento delle vecchie lire per il campionissimo, oltre ad un cospicuo indennizzo per il disturbo arrecato alla Legnano. Team e corridore strappano però la possibilità di correre a chiamata nei principali velodromi, per prepararsi alle sfide successive. Non è una conquista banale, perché gli organizzatori del Giro non vorrebbero mai distogliere l'attenzione dalla corsa. Ma alla fine cedono, ben consapevoli che il risultato acquisito ben valga una concessione di corredo.

Così tutti d'accordo. Binda, pur malvolentieri, incassa una somma monumentale. Roba da comprarcisi una villa cash. E quella cifra la rimpolpa ulteriormente fluttuando nei circuiti, in preparazione del tour de France. Il Giro, quell'anno, lo vince un ragazzino all'esordio.

Ha appena ventuno anni e si chiama Luigi Marchisio. Sarà il più giovane ad esserci riuscito, almeno fino a Coppi. L'altro fatto surreale del ciclismo nel 1930, dopo l'assurdo piano per stoppare Alfredo Binda.

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