Non è una novità, ma la riscoprono quasi ogni giorno. Alternativamente, i commentatori stranieri «al largo» e quelli americani sul filo dell’analisi. Il «segreto» così spesso rivelato è che Barack Obama non ha ancora vinto. Che deve ancora difendersi dalle offensive irruente e un po’ a casaccio di John McCain. Che i sondaggi quasi tutti favorevoli non lo mettono al sicuro e lo mantengono sulla difensiva in una situazione in cui egli dovrebbe invece quasi deporre le armi come dopo una guerra già vinta.
I numeri che nutrono le sue apprensioni non sono tanto quelli dei più e dei meno in confronto a John McCain. Sono gli altri, quelli che lo mettono a confronto con il suo partito. Il 4 novembre, si sa, gli americani non eleggono solo il presidente, ma anche l’intera Camera, un terzo del Senato, due terzi dei governatori. In questo confronto più ampio, in questa gara fra partiti, i democratici hanno una sola incertezza: se vinceranno o se stravinceranno. Allargheranno sicuramente la loro maggioranza alla Camera, puntano a raggiungere in Senato «quota 60» sui 100 seggi. Dovrebbero imporsi con un margine superiore al 10%. In quasi tutte le gare in programma. Tranne una, la più importante: quella per la Casa Bianca. Quella è in bilico.
A Barack Obama manca il 6% dei voti garantiti agli altri candidati democratici. Invece che trainante, egli è al traino. I repubblicani puntano tutto su una riconquista rocambolesca della presidenza, senza farsi molte illusioni per il resto. I perché di questa campagna double face li conosciamo: il colore della pelle, il cognome che fa perfino rima con quello di Osama Bin Laden, il secondo nome gemello di Saddam Hussein e, in genere, l’«esotismo» della sua figura che lo fa vulnerabile. Ma il problema di Obama si può riassumere ancor più succintamente: egli ha troppa personalità, in bene e in male.
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