Se Italia piange, Spagna non ride, anzi. Che cosa sono le polemiche sull’autenticità o meno del papiro di Artemidoro di fronte alla possibilità che due amati e celebrati capolavori di Francisco Goya y Lucientes siano emeriti falsi?
Il dubbio - non nuovo in verità - riguarda il grande dipinto, in tempi recenti chiamato Il Colosso (Un gigante nel catalogo del figlio di Goya, Javier), opera di potente suggestione che, mostrando una sorta di selvaggio ciclope che si erge a pugni chiusi sopra una landa devastata dalla guerra, esprime tutto il dramma della Spagna sotto l’aggressione napoleonica. Condivide la dubbia sorte del Colosso un’altra opera, La lattaia di Bordeaux, dipinto tardo del pittore spagnolo, da molti ritenuto non di sua mano.
Perché riaffiora oggi questa querelle sull’autenticità dei due dipinti? Perché ieri si è inaugurata al Prado la grande mostra che presenta al pubblico duecento capolavori dell’artista, nel bicentenario della Rivolta di Madrid contro le truppe napoleoniche (2 maggio 1808). Fra gli altri dipinti anche due celebri tele, gravemente danneggiate durante la guerra civile spagnola e ora ripresentate per la prima volta al pubblico dopo un lungo e delicato restauro: Il 2 di maggio e Le fucilazioni del 3 di maggio.
Ma c’è un particolare che ha attirato l’attenzione internazionale, tanto che ieri il quotidiano inglese The Independent vi dedicava due pagine: nella grande rassegna - la più importante dedicata a Goya dopo l’ultima del 1996, inaugurata ieri a Madrid alla presenza dei reali di Spagna - mancano proprio La lattaia, ma soprattutto Il Colosso, opera altamente emblematica del clima in cui Goya testimoniò l’aggressione francese al suo Paese. Il motivo? «I recenti progressi nello studio di Goya - spiega il direttore del Prado Miguel Zugaza - sembrano confermare i dubbi sull'attribuzione del Colosso». Dubbi peraltro condivisi dalla curatrice della rassegna, Manuela Mena Marquez, e dalla specialista di pittura goyesca Juliet Wilson-Barreau che addirittura trova l’opera mancante proprio di quella forza che pervade tutte le opere dell’artista.
Naturalmente non tutti sono d’accordo. Convinto sostenitore dell’autenticità del Colosso è stato il precedente direttore del Museo del Prado, Fernando Checa, che ha sempre sdegnosamente respinto ogni dubbio, confortato nella sua certezza da Nigel Glendinning, docente di storia dell’arte alla London University. Glendinning non si basa solo sull’esame stilistico dell’opera ma anche sul particolare che il quadro era incluso nell’inventario delle opere del padre redatto dal figlio nel 1812, nel quale porta il numero 18. E indagini radiografiche hanno individuato sulla tela, sotto alcune ridipinture, proprio il numero 18. Può il figlio avere inventariato un falso?
L’apparente contraddizione è spiegata da Andrea Daninos, mercante d’arte e collezionista italiano: «Per quanto riguarda Il Colosso non siamo di fronte a un falso come comunemente viene inteso, cioè ad un’opera scientemente dipinta nello stile di un pittore, anni o secoli dopo. Nel caso del Colosso come della Lattaia potrebbe trattarsi di un prodotto della bottega di Goya, dell’opera di un allievo, particolarmente bravo. Quindi non tanto di falso si dovrebbe parlare, quanto di incerta attribuzione. Anche Courbet, del resto, autenticava opere di allievi, per aiutarli a vendere. Bene hanno fatto comunque la direzione del Prado e la curatrice ad escluderlo dalla rassegna».
Di opposto parere è il veemente professor Glendinning che all’Independent dichiara: «Toglier il dipinto dalla mostra è stato un atto di scortesia verso il pubblico, privato così di un capolavoro molto celebre ed amato. Avrebbero potuto collocarlo in una sezione a parte, motivando le ragioni».
Lo specialista
italiano concorda invece con lo staff del Prado: «Avere escluso un dipinto di incerta attribuzione - commenta Daninos - è indice di serietà. Magari tutte le mostre che si organizzano in Italia dimostrassero lo stesso rigore».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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