La zona di interesse di Jonathan Glazer ha vinto due Oscar, quello per il miglior film internazionale e quello per il sonoro. Non stupisce. La pellicola racconta con una tecnica narrativa «per assenza» la vicenda di Rudolf Höß, comandante di Auschwitz, ma soprattutto di sua moglie Hedwig e dei loro figli. Trascorrono la vita nella cosiddetta area di interesse (Interessengebiet) di 25 miglia attorno al campo, volutamente ciechi all'orrore nazista. Ma questa narrazione per accenni, rumori e silenzi, non è stata accompagnata da un altrettanto ben calibrato uso della parola prima e dopo la consegna dei premi. Due brutte uscite, tra le tante, sono arrivate dall'Italia: la prima di Sabrina Ferilli: «Se dovesse vincere La zona di interesse, so perché vincerebbe, non certo perché è un film migliore di Io capitano». La seconda di Massimo Ceccherini che di Io capitano è sceneggiatore: «È più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei». Su queste frasi, fuori luogo, non è nemmeno il caso di scrivere. Ha parlato però anche il regista di La zona di interesse, Jonathan Glazer. «In questo momento ci troviamo qui come uomini che rifiutano che l'essere ebrei e l'Olocausto vengano strumentalizzati per un'occupazione che ha trascinato tante persone innocenti in un conflitto. Che si tratti delle vittime del 7 ottobre in Israele o dell'attacco in corso a Gaza».
Se da un lato la frase dimostra come i luoghi comuni antisemiti sopracitati siano vuoti di senso, non esiste un pensiero a senso unico su Gaza nel mondo ebraico, dall'altro trascina nel flusso del presente un film, che non ne ha bisogno. A volte è meglio lasciar parlare o tacere solo l'opera.
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