Nell’ottobre dello scorso anno, Éric Besson, titolare del nuovo dicastero dell’immigrazione, dell’integrazione e dell’identità nazionale, creato nel 2007, ha lanciato un «grande dibattito» sul significato dell’ «essere francese oggi», destinato a coinvolgere politici, amministratori, intellettuali, ma anche comuni cittadini chiamati a interrogarsi su questo tema con un questionario diffuso nella rete (www.debatidentitenationale.fr) e attraverso incontri periodici organizzati nei 96 dipartimenti della Francia. Secondo Besson nel momento in cui parlare di Nazione è divenuto per molti politicamente scorretto, occorreva invece ribadire che «essa fu sinonimo per tutta la durata della nostra storia di emancipazione e di libertà e che oggi essa rappresenta un valore imprescindibile di fronte alle sfide poste dalla deriva dei nuovi integralismi, dallo sviluppo delle attuali forme di comunitarismo e di regionalismo, dalla costruzione progressiva dell’identità europea, dalla mondializzazione dell’economia».
Accolto con molto scetticismo dai circoli intellettuali di sinistra che hanno definito l’intera operazione di Besson una sorta di non sense, con un atteggiamento qualificato da André Gluksmann «una triste attitudine intellettuale che preferisce condannarsi al silenzio invece di tentare di cauterizzare le piaghe della xenofobia», il grand débat ha però preso quota registrando un numero elevato di importanti adesioni. Se un irriducibile figlio del ’68, come Daniel Cohn-Bendit, lo ha definito un’inutile operazione propagandistica voluta dalla presidenza Sarkozy per stornare l’attenzione dell’opinione pubblica francese dai ben più gravi problemi, se lo storico Gérard Noiriel nel suo libello À quoi sert l’identité nationale? (Agone, 2007, euro 12) ha ricordato che proprio il termine identità nazionale venne usato nel 1980 da Jacques Le Pen come cavallo di battaglia della sua offensiva razzista contro gli emigrati, molto diverse sono state le reazioni di altri intellettuali e politici.
L’ex ministro dell’Educazione nazionale Luc Ferry ha affermato che il dibattito trovava la sua più ampia giustificazione non solo nel peso crescente dell’immigrazione ma soprattutto nella decomposizione dei valori di riferimento tradizionali che si è registrato nell’ultimo squarcio del XX secolo. Uno dei più apprezzabili direttori del quotidiano Le Monde, André Fontaine, ha sostenuto che il criterio identitario, ormai inconciliabile con la vecchia idea di grandeur, deve trasformarsi nella nozione di radicamento e cioè nello sforzo di fornire a tutti i francesi, al di là delle loro differenze etniche e sociali, «qualcosa da condividere e qualcosa da amare». L’economista Jacques Attali ha ricordato che neppure il nomadismo crescente del mondo contemporaneo, la cancellazione delle frontiere in Europa e al di là del nostro continente, potranno mai distruggere la sola cosa che definirà per sempre l’identità di una nazione e cioè la sua lingua, la sua cultura, il suo particolare approccio alla realtà.
Più deciso l’intervento dello storico Max Gallo che ha stigmatizzato la responsabilità delle élite culturali che, da circa 40 anni, hanno abbandonato il discorso sull’identità nazionale nella mani delle forze neofasciste, rinunciando a porre in termini credibili la questione dell’integrazione dei non francesi. Al di là della diversità dei toni, tutte queste prese di posizione delineano un modo molto diverso di concepire l’identità francese da quello illustrato dal generale De Gaulle che nelle Memorie di guerra parlava di «una certa idea della Francia» che si configurava ai suoi occhi «come la Santa Vergine di un affresco medievale, votata a un destino eminente ed eccezionale». Il riferimento più forte dell’intero dibattito sembra piuttosto essere quello fornito dal filosofo Ernest Renan, che nel 1882, quando dopo la sconfitta di Sedan si levava impetuoso nell’Esagono il vento dello sciovinismo, replicava alla domanda «che cos’è una Nazione?», sostenendo che essa non si basava sui «diritti del sangue e del suolo».
La Nazione si basava bensì «sul plebiscito di tutti i giorni che ogni cittadino deve esprimere a favore della volontà chiaramente manifestata di cementare la grande solidarietà costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme». Quella di Renan è una risposta valida anche oggi, in Francia come in Italia. Ad essa sembra riferirsi il presidente Giorgio Napolitano, nel recente volume (Il patto che ci lega, Il Mulino, euro 15), parlando di un «patriottismo costituzionale» che si traduce in un concorso di volontà più forte di tutte le ragioni di divisione e che costituisce la frontiera della nuova cittadinanza. Resta però da aggiungere che l’acquisizione di quella cittadinanza anche per i non nativi può passare solo per la lunga strada che porta all’adesione sincera e consapevole non solo a quella «costituzione formale» che regola i diritti e i doveri dei componenti di una comunità territoriale, ma anche a quella «costituzione materiale» fatta di usi e costumi secolari, di sensibilità, di conquiste individuali e sociali che vanno rigorosamente rispettate nella quotidianità anche più banale. Parlare di una cittadinanza da conferire tutta e subito ai tanti «dannati della Terra» che valicano i nostri confini è invece solo una testimonianza di faciloneria e di colpevole pressapochismo.
Ritenere come ha fatto Roberto Saviano, dopo i fatti di Rosarno, che la conquista di quel diritto possa passare anche attraverso l’uso della violenza è un’affermazione irresponsabile, dannosa per tutti.
Una nazione appartiene, senza esclusione, «a tutti coloro che la amano», ha detto Nicolas Sarkozy, in un intervento dedicato al problema migratorio del 2006, ma per quanti non nutrono questo sentimento non resta che «abbandonare la terra d’asilo che non si riesce a riconoscere come patria». eugeniodirienzo@tiscali.it- Che cosa significa essere italiani oggi? Partecipa al dibattito scrivendo a essereitaliani@ilgiornale.it
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