Ha vissuto con l’infamia del sigillo del mafioso, è deceduto da incensurato e ora è stato riabilitato post mortem. Carmelo Patti è l’ennesimo martire della malagiustizia e delle malelingue. Per anni ha vissuto col dito puntato, subendo inchieste, processi giudiziari e gogne mediatiche. Nato a Castelvetrano, paese del boss Matteo Messina Denaro, ha creato un impero miliardario partendo dal mestiere di muratore. Emigrato al Nord, Patti ha fatto fortuna dapprima con il cablaggio di fili per auto (creando con la sua Cablelettra una multinazionale con filiali in Italia e nel mondo), e dopo, rientrato in Sicilia, con il turismo, diventando il patron della Valtur. Coltivava il sogno di migliorare la sua terra bella e dannata regalando soggiorni con la formula «tutto compreso» nei villaggi turistici. E i numeri gli hanno sempre dato ragione. «Sono un promotore del turismo ma sono anche un cittadino nato in quelle zone. Lavoro perché la zona di Selinunte diventi il nuovo petrolio siciliano ma non dovrà avere un’immagine sporcata. Abbiamo un giro d’affari di 700 miliardi e un sistema contabile rigidissimo, carte alla mano dimostreremo la nostra regolarità», dichiarò nel 2000 all’indomani dell’ennesima inchiesta giudiziaria sul suo operato.
Più dava lavoro e creava strutture e più si faceva intensa la luce dei riflettori. Bancarotta post fallimentare, associazione a delinquere finalizzata alla commissione di frodi fiscali, concorso esterno in associazione mafiosa, riciclaggio: da queste e altre accuse Patti esce sempre archiviato o assolto. Dopo aver affrontato ben tredici processi, nel 2016 Patti muore a 82 anni da incensurato. Ma «la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo», sosteneva Giovanni Falcone. E sono proprio i sospetti, uniti a una legislazione che consente l’azzeramento patrimoniale sulla base di una presunzione di colpevolezza, a far sì che nel 2018 si arrivi alla maxi confisca dei beni, la più pesante misura antimafia della storia giudiziaria nostrana. 446 pagine del tribunale di Trapani che sottraevano alla famiglia Patti tre resort turistici, le quote di 25 società (qualcuna leader nel settore del cablaggio automobilistico), un’imbarcazione, terreni e immobili in giro per l’Italia, in Marocco e in Tunisia.
Oltre un miliardo e mezzo di euro congelati. «Come è possibile che un muratore diventi il padrone di un patrimonio che supera 5 miliardi di euro? Carmelo Patti come Lucky Luciano finisce sotto i riflettori della Dia per l’evasione fiscale», sentenziò l’allora capo della Dia.
Adesso, a distanza di sei anni, la Corte d’Appello di Palermo ha ristabilito la verità: nessuna vicinanza con la mafia, nessun legame illecito, Patti non era un prestanome del boss di Castelvetrano, i pentiti che lo accusavano non erano attendibili e «deve escludersi che siano emersi concreti sintomi della pericolosità sociale». In sostanza, non c’era motivo di confiscare alcun bene. Una sentenza che almeno restituisce a Patti l’intera onorabilità, post mortem, però. «Quella di mafia è un’accusa che mi lascia completamente indifferente, non ho scheletri nell’armadio, ho sempre agito nella massima trasparenza ed onestà», sosteneva con pacatezza mantenendo salda la fiducia nella giustizia.
Alla fine ha avuto ragione lui. Una vittoria amara quanto la beffa per gli eredi che, tra fallimenti ed effetti delle amministrazioni giudiziarie, riceveranno molto poco rispetto al miliardo e mezzo di euro di patrimonio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.