Sessant’anni dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy restano ancora alcuni lati oscuri. Senza scomodare i complottismi, con le tesi più o meno strampalate a fare da corollario, partiamo da un dato di fatto oggettivo: resta top secret il 30% dei 16mila documenti legati al caso. Questo nonostante il Congresso nel 1992 abbia dichiarato che tutti i documenti governativi riguardanti l’attentato a Dallas del 1963 dovessero essere resi pubblici. Ma non è avvenuto, su pressioni della Cia e dell’Fbi. Nel corso degli anni la pubblicazione di questi documenti è sempre stata rinviata, o è avvenuta in maniera parziale. Si deve tener conto del fatto che tra i documenti ci sono anche articoli di giornali, quindi non è tutto materiale sensibile per la sicurezza dello Stato. Ma se dopo 60 anni una parte di questo materiale resta ancora resta segreto, un motivo deve esserci. Viene coperta qualche verità inconfessabile? Non lo sappiamo. Gli ultimi presidenti a promettere di pubblicare tutto e poi a rimangiarsi la parola, lasciando il segreto su alcuni file, sono stati Donald Trump e Joe Biden. Ma cerchiamo ora di ricapitolare alcuni tra i misteri ancora irrisolti.
Quanti colpi furono sparati?
La tesi ufficiale parla di tre colpi di fucile, tutti esplosi dalla medesima persona, Lee Harvey Oswald, un ex marine di 24 anni con alcuni problemi comportamentali, la passione per Fidel Castro e, soprattutto, ottimo tiratore scelto. Per uccidere il presidente avrebbe usato un fucile Mannlicher Carcano modello 91, di fabbricazione italiana, acquistato usato per posta. Nel corso degli anni molti si sono domandati se fosse davvero possibile in sette-otto secondi sparare tre colpi. In realtà alcuni test effettuati nei poligoni di tiro hanno dimostrato che una persona esperta può sparare, ricaricare e sparare di nuovo, in tutto tre volte, in poco più di sei secondi. Quindi non si può escludere che Oswald possa averlo fatto quella volta a Dallas, da una finestra del sesto piano di un edificio adibito a deposito di libri della Texas School. La distanza tra la Limousine su cui viaggiava il presidente e la stanza in cui era appostato Oswald, tra l’altro, non era così grande per un fucile a distanza: tra i 53 e gli 81 metri. Si è parlato spesso di un secondo tiratore. Possibile. Ma non è mai emerso alcun dettaglio a sostegno di questa tesi.
La teoria della "pallottola magica"
Tra i vari misteri legati alla tragica morte di JFK ce n'è una che, partendo dall'analisi delle ferite riscontrate sul corpo del presidente e del governatore Connally (seduto davanti sulla Limousine), si debba escludere un singolo sparo proveniente da dietro, come sostenuto dalla commissione Warren. Per quale motivo? Se i due corpi fossero stati attraversati da un unico proiettile (come evidenzia la testi ufficiale), questo avrebbe avuto una traiettoria a zig-zag considerata piuttosto strana.
La tesi dell'ex agente Paul Landis
Rimasto in silenzio per quasi sessant'anni, in un libro l'ex agente dei servizi segreti Paul Landis, raccontò di aver trovato un proiettile nella limousine di Kennedy. Quel 22 novembre 1963 si trovava sul predellino posteriore destro dell'auto dei servizi segreti che scortava il presidente, a una distanza di circa 15 metri quando Kennedy fu ferito a morte. Spostando il corpo di JFK su una barella, Landis notò un proiettile pressoché intatto sulla parte alta dello schienale del sedile, lo raccolse e in seguito, arrivati all'ospedale, il Parkland Memorial Hospital di Dallas, lo mise su una coperta bianca, sulla barella dove era il presidente. Particolare sorprendente: nonostante la sua presenza sulla scena del delitto Landis non si fece mai interrogare dall'Fbi e non testimoniò davanti alla commissione di indagine Warren. Dopo qualche mese lasciò i servizi segreti.
L’ex marine che sognava la rivoluzione
Fin da ragazzo, appena arruolatosi nei marines, non viene ben visto dai suoi commilitoni perché si dichiara comunista. Lee Harvey Oswald ha avuto una vita non facile: nato a New Orleans, vive da solo con la madre (il padre lo ha perso prima che nascesse) che lo sposta di continuo facendosi aiutare dai parenti, mentre altri due figli li ha messi in orfanotrofio. Dopo un’infanzia assai difficile l’adolescenza ancor più problematica, a New York, con l’esplosione della violenza e la difficoltà a relazionarsi con il prossimo. Un test psichiatrico gli riscontra un delirio di onnipotenza e un forte narcisismo. Con la leva obbligatoria si arruola a 18 anni nei marines e si mette in luce come tiratore scelto.
Non riesce però a rispettare regole e disciplina e finita la leva abbandona la divisa. A venti anni parte per Mosca dove chiede la cittadinanza sovietica, che gli viene negata. Tenta il suicidio e, poco dopo, ottiene di poter lavorare come operaio in Bielorussia. Si sposa, ha una figlia, ma nel 1962 si stanca della vita sovietica e, ottenuto il permesso, fa ritorno in America, dalla madre. Dopo poco ci litiga e va a vivere da solo, con moglie e figli. Si mantiene con un lavoro in tipografia e poi in un’azienda che produce caffè. Lo cacciano perché non si impegna abbastanza. La moglie lo lascia e Oswald fugge dalla realtà gettandosi in un mondo parallelo nutrito da libri di spionaggio e sogni di rivoluzione (è fissato con quella castrista).
La vendetta contro JFK
Per scacciare dalla sua mente il senso di frustrazione e di inutilità, un giorno decide di compiere un gesto che passerà alla storia: uccidere il presidente degli Stati Uniti, che odia dal giorno in cui questi ha tentato di rovesciare Fidel Castro. Lo farà con il suo fucile, affacciandosi dalla finestra del deposito di libri per cui lavora come magazziniere. Oswald verrà ucciso, a sua volta, due giorni dopo l’assassisnio di JFK, da Jack Ruby, un piccolo gangster di Cosa Nostra legato ai boss di Chicago e della Florida, gestore di un night club.
Molti nel corso degli anni si sono chiesti: possibile che abbia fatto tutto da solo il killer di JFK? Di certo sappiamo che nel settembre 1963 Oswald si recò a Città del Messico dove incontrò spie cubane e russe, tra cui un personaggio ritenuto esperto di omicidi per conto del Kgb. Cosa era andato a fare, l’ex marine, in quelle sedi diplomatiche? Di cosa doveva discutere? Può essere che nell'assassinio abbia agito come mero esecutore, eseguendo un piano scritto da altri, rimasti nell’ombra.
Il delitto al rallentatore, scena dopo scena
Grazie a un eccezionale filmato realizzato da un fotoamatore, Abraham Zapruder, abbiamo le immagini a colori dell’attentato. Si vede la macchina del presidente che si sposta lungo Dealey Plaza, gli spari, la disperazione della first lady che si sporge sulla parte posteriore dell’auto per recuperare alcuni frammenti del cervello del marito, il panico degli uomini della scorta, la Limousine che invece di sgommare via inspiegabilmente rallenta e poi riprende la corsa. Analizzando le immagini, frame dopo frame, si nota anche una donna, il cui comportamento sembra strano, diverso da tutti gli altri.
La donna con il foulard in testa e il cappotto giallo
Indossa un cappotto giallo, in testa ha un foulard e porta gli occhiali da sole. Mentre alcuni agenti di polizia corrono, a piedi e in moto, altre persone sono a terra, bloccate dallo spavento, tra spari, urla e sangue sull’asfalto, colpisce l’apparente calma di questa signora, soprannominata Lady Babushka. Tutte le persone presenti sul luogo del delitto furono identificate e interrogate. Lei no. Eppure centinaia di persone raccontarono di aver notato quella persona, apparentemente tranquilla e in pieno controllo di sé, mentre tutti erano nel panico e nel caos. Non è mai stata trovata. Anzi no, nel 1970 una donna, Beverly Oliver, disse di essere lei la misteriosa Lady Babushka. Ma si rivelò un falso.
Il mistero dell'uomo con l'ombrello
L'analisi accurata nei minimi dettagli del famoso filmato di Zapruder fece emergere un altro dettaglio assai strano, divenuto celebre come il mistero dell'uomo con l'ombrello. In pratica nel video si vede un uomo che, mentre stava passando la limousine presidenziale, aprì l'ombrello sopra la propria testa e lo ruotò in senso orario. Un segnale dato a qualcuno? L'uomo in questione, poi, subito dopo si sedette sul marciapiede accanto a un altro uomo, prima di alzarsi e dirigersi verso il Texas School Book Depository. Quell'uomo fu identificato nel 1978 come Louie Steven Witt. Raccontò di aver agito in quel modo come segno di protesta contro le scelte politiche non tanto del presidente ma di suo padre, l'ex ambasciatore Usa a Londra, Joseph P.
Kennedy, che prima della seconda guerra mondiale sostenne la linea del governo britannico volta a trovare un accordo con Hitler. L'apertura di un ombrello nero al passaggio di una eminente personalità era una forma di protesta già attuata altre volte in passato contro JFK.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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